La Costituzione
Che il nostro paese sia "una Repubblica democratica fondata sul lavoro" è qualcosa che può essere seriamente messo in discussione. Non sarebbero pochi oggi a correggere l'articolo con un "fondata sugli interessi". Il lavoro è infatti una categoria in via d'estinzione. Un po' perché lo fanno sempre meno gli italiani, ma soprattutto perché, quando fu espressa questa curiosa, ma fondamentale formula, per "lavoro" si intendeva qualcosa di eticamente, moralmente, politicamente e umanamente diverso dal significato attribuitogli oggi.
Il lavoro è innanzitutto un'attività che catalizza le relazioni interpersonali attorno alla realizzazione di un obiettivo che coincide spesso con un piccolo o grande contributo alla civiltà del paese.
Un glossario
Questo vuol dire che il lavoro è prima di tutto espressione della creatività e dell'attività umana, e contributo all'evoluzione della propria cultura.
Il profitto è un prodotto delle realizzazioni umane (sempre meno quelle strutturali e sempre più quelle sovrastrutturali ovvero parassitarie) da un punto di vista dell'arricchimento sociale e della cultura di appartenenza.
L'impresa è la coniugazione della una creazione di ricchezza socio-culturale con la realizzazione di ricchezza economica, tanto per l'impresa stessa e i suoi membri (e quindi l'imprenditore stesso e chi ne condivide gli investimenti) che per il Dipartimento geografico e il Paese intero.
La speculazione è la realizzazione di profitto senza il ricorso ad imprese aventi le caratteristiche suddette (il termine "impresa" oggi è sempre più abusivo, abusato com'è da società fantasma che non generano prodotto, servizio o ricchezza, ma al massimo la stornano arricchendo così la proprietà e i suoi stakeholder). (Osservazioni analoghe vennero espresse fin dagli anni '80 da Alain Touraine e conseguentemente da Luciano Gallino).
Dalle Human Relations…
Corsi e ricorsi storici! Fu Keynes a sottolineare come la ricchezza fosse il frutto di un'economia generale della Nazione, invece dei risultati del singolo bilancio. Negli anni a cavallo fra le due guerre mondiali (fra la fine dei '20 e l'inizio dei '30) alla Western Electric di Hawthorne i ricercatori attorno a Elton Mayo misero per la prima volta l'accento sui contributi alla produttività forniti dal clima e dal comportamento dei dipendenti da questo condizionati. Da questi lavori nacque la scuola delle "Relazioni Umane" che evidenziava come nel lavoro fosse centrale il bisogno di appartenenza al gruppo, la qualità dei rapporti interpersonali fra dipendenti e la presenza di un significato a cui fornire un contributo riconosciuto per una "causa" comune.
Nel secondo dopo-guerra la teoria sistemica influenzò la trasformazione di queste ispirazioni originarie in un modello definito socio-tecnico (Emery, Trist) che illustrava come la salute dell'impresa dipendesse dall'efficacia del continuo scambio retroattivo (feedback) fra la componente strutturale (tecnica) e quella interattiva (sociale). La visione sistemica accentuava l'idea che l'impresa fosse soprattutto un ambiente a sua volta inserito in uno più grande e contente dei sotto-ambienti che scambiavano processi e transazioni tramite i quali si realizza una cultura specifica. La fortuna di queste idee ha superato il modello stesso, incarnandosi alla fine nelle evoluzioni degli anni '80, primo fra tutti il "Total Quality Management".
…alla globalizzazione
Perché di sistemi socio-tecnici non si sente più parlare? Perché il lavoro è stato parcellizzato e disperso e le imprese sono state portate altrove. Ci stanno insegnando che dobbiamo ragionare in termini di mercato e in termini di geografie allargate, mentre la geografia della speculazione funziona per concentrazioni e non certo per distribuzioni. Fuori dell'impresa la morte della politica industriale è dettata dalle manipolazioni dei mercati borsistici. Dentro le imprese il loro sfacelo è causato dall'esternalizzazione selvaggia prima dell'operatività e ultimamente del pensiero e dalla sostituzione dei criteri euristici (innovativi) di organizzazione e gestione con strumenti di standardizzazione e automazione uniformanti (a causa dell'omologazione in basso le imprese hanno sempre meno quel contributo all'innovazione che - unico - ne garantirebbe la competitività) e costosissimi proprio in termini industriali e organizzativi.
La fine dei sistemi socio-tecnici
La morte del sistema socio-tecnico comporta una scomparsa del lavoro come relazione e condizione di crescita culturale. Questa non può essere sostituita né con il profitto, né con la sua diretta emanazione che non è più il capitale, ma piuttosto il consumo delle eccedenze sempre maggiori e l'acquisizione di poteri sempre meno collegati con i loro effetti. A che serve essere "potenti" in un luogo privo di cultura relazionale, in un paese in cui l'arricchimento civile si è fermato o è regredito?
Se infine un luogo di crescita socio-tecnica ci fosse nel nostro paese, questo non è dato né dalle piccole imprese, troppo spesso realtà "mordi e fuggi" improntate sulla speculazione del quotidiano, né dalle grandi imprese, vuoti gangli della movimentazione borsistica di denaro soprattutto fra clan di capitale praticamente protetti dall'anonimato internazionale. Una possibilità viene data proprio dalle risorse della media impresa, dove sopravvive ancora una residua cultura imprenditoriale.
C'è un limite di applicazione alle sociologie, psicologie e metodi gestionali e questo è la volontà e l'etica delle persone e dei paesi.
Vedi anche:
Dal baratto alla post-economia
Missing Culture
come dimostrato ormai se non rimettiamo al centro l'uomo e non il profitto ci attende solo il baratro
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