Quello dell'assenteismo è stato considerato da sempre un malanno da estirpare dai luoghi di lavoro. L'assenteista è stato visto in diversi modi, e comunque generalmente come un tipo disonesto, un mangiapane a tradimento.
Eppure dovremmo considerarlo in una maniera diversa.
È comprensibile che un'impresa non possa permettersi uno spreco come quello causato dai dipendenti assenteisti. Questo è un criterio economico che mostra di avere tutte le ragioni. Non altrettanto vale per la connotazione etico-morale.
Il lavoro salariato è un'invenzione dell'uomo che non ha nella natura dei fondamenti innati.
È quindi una persona normale quella che cerchi di evitare di lavorare.
L'assenteismo è soprattutto presente laddove il frutto del lavoro non è direttamente percepibile. Se mi procuro il cibo perché ho fame è naturale che veda gli effetti del mio operato e mi faccia convinto a ripeterlo ogni volta che ne ho bisogno.
Più difficile è convincere qualcuno che è giusto che lavori, non tanto per ottenere un prodotto, quanto per meritarsi lo stipendio a fine mese.
La coercizione, lungi dall'essere un deterrente, favorisce il desiderio di fuga, e quindi il fenomeno dell'assenteismo.
L'assenteista in molti casi è il vero lavoratore ecologico. In molti casi l'assenteismo non è solo un puro e semplice atto di evitamento, ma spesso un gesto di dissenso in una situazione in cui non sono possibili altre forme di espressione (la condizione schizogena del doppio legame Batesoniano - Double Bind).
Ricordo alcuni direttori di azienda in pensione o prossimi alla quiescenza che durante una cena si complimentavano l'un l'altro di quanto avessero messo in atto del motto - ai loro occhi deivertentissimo e giusto - che gli uomini si dividono in due grandi categorie i "piglia" (dove lo si può facilmente intuire, visto che l'enfasi sul triviale è una delle connotazioni distintive della sintassi di potere) e i "ficca".
Agli occhi di gran parte di queste direzioni le imprese sono dei trenini, una piccola parte della rete ferroviaria del ciclo aliment-anale nazionale, continentale, mondiale.
L'assenteista, prima ancora di essere uno che si astiene dal lavorare è uno che si astiene dalla partecipazione a questo meccanicismo sado-masochista inefficiente e parassitario. In questo senso non fa del male ai bilanci aziendali: fa del bene, piuttosto, in quanto riduce lo spreco di quest'attività residuale che è diventata presto dominante nelle organizzazioni del bel paese.
Come dire che in Italia ci sono picchi di assenteismo proporzionali all'immoralità del potere anti-economico.
Lungi dal proporre un'apologia dell'assenteismo, ne suggerisco l'interpretazione come sostanziale epifenomeno della direzione aziendale centrata sul potere, anziché sul risultato (out). Se la direzione lavorasse per il risultato ci sarebbero molti meno dipendenti assunti per riempire di risorse la giustificazione del potere del responsabile. L'assenza della persona necessaria si traduce in un'immediato effetto di visibilità. E soprattutto ci sarebbero meno sostituzioni di persone critiche con personale temporaneo incompetente.
Purtroppo il precariato, così in voga negli ultimi tempi, non fa che motivare l'assenteismo: non solo e non tanto quello dei precari stessi, quanto soprattutto quello degli equivalenti in ruolo che si trovano a fare quello che l'assunzione temporanea non riesce a realizzare, pur essendo implicitamente squalificati, in quanto equiparati a dei precari (in quanto tali non indispensabili).
Una buona direzione saprebbe che cosa far fare alle persone e come trasmettere la visibilità del proprio operato ai dipendenti. Lavorare "con te" e non "per te", questa è l'unica razionalità in grado di controbattere le ragioni nobili dell'assenteismo critico.
Una nuova filosofia delle risorse umane prevede che si lavori quel che serve, in quanti - e competenti - si rendono necessari per un risultato percepibile e riconosciuto in un sistema d'impresa bilanciato e dinamico, più smart che heavy, più intelligente che potente.
Semplicemente "sante parole"
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