17 gennaio 2011

Della mia comparsata su "Repubblica"

Oggi gli amici mi hanno comunicato che il mio nome compariva sul giornale la Repubblica (sia su carta che on line) a riguardo di un'articolo sulla "Dieta Tecnologica". L'amica giornalista Vera Schiavazzi ieri aveva chiesto per e-mail il mio punto di vista su un tema presentato in un pezzo del Wall Street Journal a proposito della dieta di tecnologia per l'eccessiva dipendenza che dovrebbe affliggere tutti noi.

Sono andato a comprare il giornale e ho letto il pezzo. Ovviamente i giornalisti devono fare operazioni di sintesi spesso difficili ma inevitabili in seguito alle quali le frasi, avulse dal contesto o contratte in maniera poco naturale finiscono per assumere sensi e intenzioni sfumate o differenti da quelle dell'intervistato.
Il vantaggio di un'intervista epistolare è quello che si possono riportare testualmente le parole usate, non per contraddire il giornalista, ma per spiegarsi meglio con gli amici. Questo è dunque quello che miro a realizzare con la clonazione del messaggio originale da me inviato a Vera, che forse può anche costituire un piccolo valore aggiunto al dibattito. Eccolo:



"Lo scenario è molto lontano da quello della famiglia media italiana e direi anche da quella media statunitense se escludiamo la middle class metropolitana.


Le statistiche di Nielsen sono drogate dai loro obiettivi, ancor prima che dalle fonti che utilizzano che non sono certo quelle del paese reale per buona parte più vicino ai film di Eastwood (per stare nella media alta). In Italia le cose sono ancora diverse.
Sotto il profilo professionale posso indossare due vesti che corrispondono a due attività che guardano alla questione da altrettanti osservatori per così dire complementari: l'esperto di gestione e condivisione delle conoscenze nelle organizzazioni o quella di psicoterapeuta che si occupa di dipendenze di varia guisa.
Come esperto di knowledge sharing e quindi di accesso tecnologico all'apprendimento e alla comunicazione organizzativa, ti dico che l'obiettivo auspicabile sarebbe quello di una certa naturalezza e "astuzia" nell'uso delle nuove tecnologie, ma non è quasi mai così. Abbiamo assistito ad un cambiamento affatto graduale dove la gente con il termine "informatica" identifica più le piattaforme che il loro utilizzo. Ieri non sapevano e rifiutavano di usarle, oggi sono come cani di Pavlov o piccioni skinneriani che adottano comportamenti routinari acritici indotti da gestori tecnologici demotivati ad integrare gli strumenti avvicinandoli ai comportamenti umani. Detto in parole povere, impiegati e manager sono i veri terminali delle macchine e non il contrario e l'autorità nelle organizzazioni ha uno stile replicante che finisce per produrre aziende ripetitive e quindi prive di competitività.


Per fare un esempio, il successo di Apple non dipende tanto dall'intelligenza di Jobs, ma dalla stupidità dei suoi concorrenti, incapaci di un pensiero che non esca dallo stampino. Decenni di successi del modello-stampino hanno reso inabili ai modelli di produzione tradizionali. Quelli del nonno.


Da qui il primo corollario: il miglior modo per rendere intelligenti i dipendenti è spegnere i computer e fargli imbracciare la zappa e mandarli a coltivare l'orto aziendale (a qualunque oggetto possa applicarsi la metafora), per poi farli tornare cum grano salis alle macchine. Ad esempio, oggi l'operaio informaticamente ignorante è mediamente più sano e quindi anche più intelligente (chi non ha la salute come riferimento non ritengo possa essere intelligente nel significato che do personalmente al termine) dell'impiegato e molto più del manager entry e middle level.
Le nuove tecnologie portano ad un pensiero arco-riflesso. Il paradosso è che viene spacciato per critico. Raramente partono da un processo costruttivo, un progetto, come avrebbero voluto i padri del personal computer, da Wiener a Engelbart.


La colpa di questo però non sta nelle tecnologie, ma nelle volontà. Le alternative alle piattaforme aziendali di clonazione, come gli ERP (uno per tutti SAP) che portano le scienze organizzative indietro di 40 anni dagli sviluppi degli anni '80-'90 non erano le uniche strade possibili a disposizione per introdurre le tecnologie digitali in azienda. In genere c'erano due vie: quella della classificazione in modelli rigidi con alti costi tecnologici sostenuti dai tagli dei cervelli organici, e quella del ricorso all'informatica per l'empowerment delle persone che grazie a queste possono dare di più (dato e non scontato che poi abbiano qualche obiettivo reale in testa). Il grave è che la pedagogia delle schede di matrice anglosassone adottata nelle scuole elementari è il peggiore e assolutamente pervasivo imprinting ad un ragionamento e ad un apprendimento basato sul riflesso condizionato acritico. Il design delle tecnologie è la logica conseguenza di una strumentalizzazione (da strumento, utensile, cosa…) della persona.
Oggi possiamo dire che "più mezzi abbiamo e meno motivazioni abbiamo per usarli".
Cambiando càmice, ora parlo da psicoterapeuta.


È vero, esiste un fenomeno di dipendenza dalle tecnologie, ma - attenzione - non dal computer e, se togliamo l'utilizzo telefonico, neppure dallo smartphone.


È una dipendenza da videogioco on line, da Facebook, da Messenger, da SMS… Per molti consumatori, Internet È Google: neppure si inserisce l'indirizzo sull'apposito campo quando questo sia ovvio. Se chiedessi ad un ragazzo di cercare il sito di Google non mi stupirei che nella barra di ricerca Google (che per lui è Internet) scrivesse la parola "Google" per "andare su Google". La tecnologia è trasparente: STO su Facebook, cosa c'entra accedere il PC? STO su Messenger! Non sono al telefono, sento la Samantha. Non ho acceso la TV, non mi perdo l'ultima puntata di Sex and the City.


Gli smartphone fanno poi la differenza perché ci sei sempre, TV compresa. La maggiore motivazione per comprarli non è certo quella di usare Wikipedia, quanto quella di essere ALLWAYS ON.
Dunque le simpatiche scenette descritte nell'articolo di WSJ non sono forme di dipendenza da tecnologie, ma Dipendenza da mangiatoie della vita borghese di città, con tutte le loro patologie, di solitudine, di desiderio, di anonimato…
Si aprono a questo punto due vie: la disintossicazione e la scelta.


La prima oggi non sarebbe che uno spostamento della dipendenza da un lato all'altro degli strumenti di condizionamento. Il giorno della dieta dovrebbe comprendere tenere spenti televisioni e radio, staccare telefoni, chiudere i centri commerciali e così via. Praticabile per chi vive in un rifugio alpino sepolto dalla neve, e non certo per un abitante di New York, ma neppure di Bene Vagienna.
L'altra via è quella di usare le tecnologie come quello che chiamo "il fumatore sano". Qualsiasi sostanza consumiamo è potenzialmente dannosa. Il fumo è una di queste. Esistono però due tipi di fumatori: ci sono quelli che "si fanno fumare dalla sigaretta" e che nei casi estremi - peraltro non rari - hanno due o tre sigarette accese nello stesso momento (una in mano, una nel portacenere, e l'altra in bocca) e quindi non sanno neppure di stare fumando; ci sono poi quelli che scelgono di fumare "proprio quella sigaretta lì" che potrebbero addirittura battezzare Casimira tanto l'hanno individuata, come faceva John Belushi in "Chiamami Aquila" con l'ultima del pacchetto in alta montagna. Quando usi il computer per fare proprio e solo "quell'azione lì", allora puoi non considerarti "dipendente" da tecnologie.
La technology addiction non è che una forma di patologia da dipendenza come un'altra in una società che ha fatto della dipendenza il proprio stile di vita e di economia al punto da identificarlo con il concetto stesso di benessere ("dobbiamo tornare a comprare per esorcizzare la crisi" e poi dobbiamo vivere 3 vite per mantenere tutte le "cose" di cui ci siamo riempiti le case e le esistenze). Curioso che gli esperti tendano a distinguere fra quella che è dipendenza-dipendenza e le dipendenze in genere, al di là delle loro conseguenze in genere sempre devastanti.


La richiesta di terapie per la dipendenza da tecnologie incomincia ad arrivare allo studio dello psicoterapeuta. Ci sono terapeuti sornioni che se ne rendono esperti, altri meno di successo che cercano di fare emergere come quasi sempre dietro a questa richiesta, che il più delle volte ha come paziente designato il figlio, ci sia un modello di vita che fa acqua da tutte le parti e che si cerca di esorcizzare con la diagnosi di un'Internet Addiction come un'altra.
Esiste una terza strada, quella che ritengo la più intelligente, la più praticabile e con maggiori spunti di crescita, ma è anche quella che richiede una maggiore autonomia e intelligenza (le famose funzioni atrofizzate del contemporaneo urbano). È l'Ironia. Quella di Socrate, certo, ma anche quella di Dilbert, quella del manager che si prende in giro con il suo BlackBerry divenuto l'elettrodo con cui l'azienda gli dà le scosse anche ad ora di cena ma che quando lo capisce lo spegne o lo regala al figlio con l'intento esplicitato di fargli un dispetto, ben consapevole che questi presto lo farà finire nella prima pozzanghera per sbaglio o se lo farà fregare sul pullman. Solo l'ironia ci consente di staccare veramente e di dedicarci all'aglio, olio e peperoncino, perché se queste cose fantasmatiche le prendiamo troppo sul serio, finiamo nostro malgrado per trasformarle in quello che non sono: delle realtà".

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