All'inizio del 2000 il prematuramente scomparso studioso delle organizzazioni Richard Normann prevedeva la riduzione drastica del personale delle imprese di grandi dimensioni, arrivando a preconizzare che nel giro di qualche anno la grande impresa sarebbe andata a coincidere con il proprio stesso top management. Tutto il resto delle attività, direzioni esecutive comprese, sarebbero state esternalizzate.
Questa previsione si è puntualmente verificata anche se in maniera scomposta.
Così oggi ci ritroviamo con grandi imprese che si servono di contact center condivisi il cui personale nel giro di pochi giorni dovrebbe sapere tutto dell'offerta e dell'assistenza di ogni singolo marchio con conseguenze disastrose soprattutto per i clienti che finiscono per ritirarsi, non solo dalla società, ma spesso dall'intero comparto: il costo di seguire l'offerta della concorrenza o l'innovazione tecnologica è talmente alto in termini di tempo e frustrazione nei rapporti con l'azienda che si preferisce accontentarsi di ciò di cui già si dispone, addirittura regredendo a delle funzioni basilari. Meglio un telefonino fai da te oggi che un videofonino-broadband con call center, incomprensioni, fregature e frustrazioni domani.
I pochi dipendenti con un minimo di anzianità tuttora presenti nelle imprese sono vere miniere per il consumatore, allorquando abbia la fortuna di raggiungerne uno: nonostante siano spesso frustrati e demotivati, riescono in pochi secondi a risolvere problemi che durerebbero giorni e sequele di risposte scorrette seguendo le procedure normali.
L'altra incongruenza di questa situazione e che per arrivare alla grande impresa senza dipendenti si dovrebbero saponificare le risorse tuttora in carico e questo, forse per quelli che qualcuno considera "retaggi ideologici", non è ancora possibile. Tuttavia, mentre il personale generico è più facile da gestire in qualche maniera, almeno pro tempore, e le linee gestionali intermedie sono dislocabili in diversi modi, la fascia che porta con sé le maggiori contraddizioni sono gli esperti, i cosiddetti professional. Quanto più si fanno portatori di conoscenze pregiate tanto più sono scomodi. Hanno dei costi non indifferenti, ma soprattutto portano in luce i panni sporchi del modello. Si preferisce piuttosto pagare a volte a caro prezzo competenze esterne che sono a loro volta sotto-pagate con personale precario, spesso alle prime armi, grazie alle pratiche d'uso delle leggi sul lavoro da Treu in poi. Nel contempo si fanno "andare a male" portatori di esperienze utili e a volte uniche. Certo, l'ideale sarebbe fare confluire questi professional in società di consulenza come quelle auspicate da Normann, ma le cose - almeno in Italia - non stanno così: le imprese del nostro paese non hanno sensibilità per gli investimenti in intelligenza o servizi e fra burro, cannoni e conoscenza, all'ultima sono pronti a rinunciare immediatamente a dispetto delle dichiarazioni rilasciate al solo scopo di non incorrere in penalizzazioni dovute al bilancio di sostenibilità, ultimo segreto di Pulcinella societario. Nessuna società di consulenza assumerebbe esperti senior di appartenenza aziendale a tempo indeterminato, quando può vendere giovani su cui speculare per due soldi.
Questo vuol dire che queste grandi imprese dovrebbero mettere a fattor comune i propri professional che nessun distretto vuole avere nel proprio budget. Invece di rimpallarseli reciprocamente o di creare delle società specializzate ad hoc per competere contro i grandi speculatori del settore, dovrebbero creare dei grandi repositori corporate, un recettacolo indifferenziato di tutto il patrimonio di professionisti aziendali.
Oggi i knowledge workers sono sempre meno specializzati e fanno riferimento a sempre nuove interdisciplinarietà. Inoltre la qualità peculiare del lavoratore della conoscenza è quella di unire alle competenze disciplinari la conoscenza connessa all'esperienza e all'appartenenza aziendale.
Per questa ragione le imprese, marcatamente quelle di grandi dimensioni che stanno snellendo le proprie strutture quando non stanno addirittura destrutturando completamente grandi aree farebbero bene a pensare a una nuova figura, quella del lavoratore a progetto interno (un "Insider CoCoCo") da destinare di volta in volta all'area, alle divisioni, alle società controllate, collegate e così via al momento del bisogno.
Un bacino di competenze generale con un ampio spettro di utilizzo da sostituire o anche solo da affiancare ai gruppi in outsourcing. In questo modo si conserverebbe una preziosa competenza interna, ottimizzando i costi e riducendo gli sprechi.
Chissà mai però se imprese divenute oramai sempre più ostaggi delle multinazionali della consulenza e dei programmi gestionali si interesseranno mai di determinare qualcosa di sempre meno speculativo come la propria organizzazione interna?
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