29 settembre 2008

Siamo al comunismo

Per chi non se ne fosse ancora accorto, l'Occidente sta arrivando al Comunismo. Lo dicono i fatti, non le fedi ideologiche: che ci piaccia o no.

Probabilmente questo non avverrà oggi: magari entro quel 2012 che gli astrologi come Barbault indicavano essere il momento di rivolgimento, la fine della spirale ciclica astrale e del periodo della grande congiunzione, oppure l'inizio dell'anno solare degli Inca o dell'Era dell'Acquario… Sta di fatto che il periodo segnato dagli esoteristi combacia con quello che vediamo in TV: o si cambia, sovvertendo un modello culturale umano, o inevitabilmente si soccombe come gli Atlantidei dell'antichità mitologica.

Non si osserva tanto l'avvento del comunismo politico, quello andato in crisi con la caduta del muro di Berlino e che oggi è, al più, cosa per nostalgici di una rivoluzione di classi che hanno smesso di esistere. Piuttosto il comunismo economico, quello del Marx del Capitale da tempo preconizzato da quello che è forse il più marxiano-non-marxista degli economisti italiani, il Giulio Tremonti che oggi è Ministro dell'economia e delle finanze di un governo liberale.

Si sa, per chi non funziona a slogan, che esistono due Marx: uno, quello politico, autore del Manifesto del Partito Comunista, uomo del suo tempo che ha manifestato quelle che nei suoi anni potevano essere scelte cui credere e il cui testimone fu raccolto da politici come Lenin o Trotsky; l'altro, il padre del modello macroeconomico evoluzionistico neo-giudaico che nell'opera Il Capitale, oltre a riassumere in chiave economicistica la storia dell'uomo, disegnò lo scenario prevedibile per il futuro delle Nazioni più evolute.

Sbagliano quelli che sostengono fallita quella visione alla luce dei destini degli Stati che si richiamavano al Comunismo, perché proprio il principio evoluzionistico dell'economista tedesco sanciva che solo dove si fosse verificata la transizione che dal feudalesimo passa agli stati borghesi e a quelli del capitalismo privato si sarebbe potuto realizzare il passaggio al Comunismo, non tanto come ribaltamento violento, quanto come trasformazione naturale di un modello in un altro, in linea con il pensiero di Schumpeter. Ne consegue che le Nazioni che si sono richiamate al comunismo non potevano essere considerate comuniste, perché non erano ancora passate per il capitalismo privato.

Oggi viene da dire che quel giorno è arrivato e proprio nello stato dove il modello capitalistico è più evoluto e radicato: gli Stati Uniti d'America.
Lì, la crisi dei mutui sta mandando in rovina proprio i quartier generali dell'economia tradizionale, le banche private. Una dopo l'altra stanno crollando come tessere di un domino.

Solo l'intervento della Banca Centrale riesce ad operare per impedire la loro rovina. Non si può tuttavia pensare che questo tipo di intervento possa durare in eterno e se, alla fine, le risorse che sostengono le poche banche sopravvissute saranno le stesse per tutte, che cosa saranno queste ultime se non le filiali di un'unica agenzia, di un unico Capitale, quello degli abitanti della Nazione? Una situazione simile ad oggi fu quella che portò all'IRI nel pieno del fascismo della crisi economica e poi in quella del dopoguerra, ma qui la situazione internazionale è ben diversa e quello che è in ballo non sono due o tre aziende in crisi, ma l'intero capitale e il futuro delle Nazioni.

Ecco, quindi, che si realizzerebbe quello che intravedeva Marx, ovvero la concentrazione di tutto il Capitale in una cassa statale. Tali fondi dovrebbero innanzitutto sanare gli effetti di questa rivoluzione evoluzionistica, ovvero gli squilibri sociali e culturali che essa ha generato, garantendo in primo luogo la soddisfazione dei bisogni primari della popolazione (probabilmente intervenendo prima o poi anche nella sperequazione socio-economica). Ben poco potrebbero i capitali privati a questo proposito, perché il rivolgimento è talmente grande da vanificare il potere dei singoli.

Un "comunismo" ben lontano da quello dei partiti comunisti del recente passato, una transizione spontanea (Schumpeteriana, appunto), quasi naturale che però lascia aperte molte domande. In primo luogo il rapporto con la situazione internazionale, dove il potere economico è in mano a paesi che per la prima volta stanno sperimentando ancora il capitalismo privato. La trasversalità transnazionale delle condizioni economiche e sociali che porta a far somigliare meno gli americani, ad esempio, con gli altri americani, quanto i loro poveri con i poveri di tutti i paesi industriali, e così via. Mai come ora è importante difendere la Pace.

Il destino del lavoro, dopo le bolle dello yuppismo e del post-yuppismo virtuale: andare oltre l'economia che produce reddito dallo scambio di titoli, invece che dalla produzione di beni e servizi (l'attuale crisi delle borse). Un capitale centrato più sullo scambio del lavoro che su quello della valuta.

L'uso delle risorse e la riduzione dello spreco e dell'inquinamento. Il rispetto della Terra e la ricerca sostenibile come formula per il futuro. Un modello di vita meno orientato al profitto e più al recupero della socialità.

L'utilizzo evoluto delle tecnologie, rivolte all'empowerment delle risorse delle persone e non all'automazione di modelli automatici di standardizzazione di un paradigma socio-economico che non ha più nulla da dire o da dare. Lo sviluppo della collaborazione e di nuove forme di socialità basate su uno stare insieme felice, più che su un consumismo del superfluo.

Il recupero del localismo dopo una sbronza di globalizzazione imperialista alienante e spersonalizzante. Non si tratta né di abbandonare una prospettiva di internazionalismo dei confronti e della cooperazione, né di concedersi ad un nostalgismo degli antichi nazionalismi abbattuti assieme alle frontiere, ma casomai di approfittare dell'allargamento per rivolgersi al piccolo, ad un federalismo (l'unico ritorno possibile alla Politica ormai morta) che renda percepibili le scelte individuali, valorizzandole invece di ridurle all'impotenza di una visione troppo estesa e per questo schematica e banale. Seguire un modello "glocal" (vedi anche qui) avrebbe fatto sì che le banche europee, e quindi italiane, non finissero compromesse dall'esposizione al capitale statunitense. Il localismo è sostenibilità ed è il principio per cui è bene costruirsi attorno all'economia del piccolo ("Piccolo è bello").

L'elenco potrebbe proseguire a lungo, ma quello che conta oggi è guardare alla crisi, non come a una fine, ma come a un inizio e pensare alla qualità reale e non immaginaria della nostra vita, a partire da un cambiamento di schemi coatti. Un Marx che porta allo Steiner socio-economico, in cui l'uomo non è quello che mangia, ma un essere che crea le condizioni di vita migliori per lo sviluppo della propria natura nobile, della propria spiritualità.

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