27 marzo 2011

Il Web 3.0 pensionerà la nostra specie

Intervistato da Jason Calacanis al Liveblogging SXSW, Tim O’Reilly ha spiegato il seguito del tormentone del Web 2.0 che, in mancanza di meglio, ha battezzato grattando il barile della sua originalità Web 3.0.

Chi ha qualche anno in più, e Tim ne ha abbastanza, dovrebbe ricordare, non solo il Web Semantico, ma anche la parabola precoce del cosiddetto M2M (che stava per la metafora del sistema di macchine a generazione autoreferenziale, machine-to-machine).

A fronte di un'intelligenza su network che, inflazionandolo, ha impoverito il valore di quello che ritenevamo più prezioso, come la comunicazione, l'informazione, la cultura, stiamo giungendo ad un'auto-generazione di referenze (i tag) che a loro volta mescolano i contenuti, confondendo le parole con le conoscenze, il consumo con l'elaborazione, la lettura con la meditazione.

Facendo eco all' Howard Rheingold di "SmartMobs" e al Don Norman de "Il computer invisibile", Tim nota come gli smartphone, la geolocalizzazione, i feed rss… stiano costruendo attorno a noi una rete neurale che vive e "pensa" al nostro fianco. Questo sta ribaltando i rapporti di forza: non è più lei che serve noi, ma siamo noi ad essere i suoi burattini, come la premonizione dei tempi mefistofelici intuiti da Rudolph Steiner un secolo fa.

Dobbiamo ricordare che Internet e il Web, qualsiasi sia il suo numero, non è né indispensabile, né invulnerabile. Pensiamo solo a quello che accadrebbe nel caso di un crash magnetico come quello ipotizzato da certi catastrofisti. Potremmo pensare che si tratti di un'eredità che la nostra specie, nella sua variante cosiddetta "occidentale", capitalistica, sovra-produttiva e consumistica, lascia alla storia. Ma Alessandria e la sua biblioteca, come forse Atlantide e la sua civiltà, sono rimaste cancellate e con esse la storia che avrebbero dovuto testimoniare. Internet, riprocessando tutto il riprocessabile, finirà come una funzione statistica per ridurre tutto ad un rumore di fondo.

Quello che dovrebbe interessarci, ma sembra che non sarà mai così, dovrebbe essere il nostro lavoro, la nostra capacità di pensare, di inventare il futuro… tutto quello che sapevamo fare prima di impigrirci nell'ultimo epifenomeno entropico della tecnologia.

Alle origini della nostra cultura vi era la trasmissione orale ed il passaggio a quella scritta veniva visto dai saggi antichi come un impoverimento, perché i Maestri non potevano trasmettere il proprio insegnamento senza la propria presenza. Questa maestria è tipica di molta formazione di tipo iniziatico, come ad esempio quella caratteristica dell'apprendimento della psicoterapia. I libri possono aiutare a ricordare quello che hai imparato, ma non insegnare. Per questo la scuola delle nostre Nazioni è un vuoto a perdere e con essa tutte le conoscenza che possano essere ridotte ad archivi semantici di parole e meccanismi bulimici consumistici.

Internet, nelle incarnazioni di qualsiasi Web 3.0, non potrà sostituire l'essenza della civiltà umana nelle sue luci ed ombre, ma solo chiudere la parabola della delega di un presidio faticoso: quello della condizione umana.

Personalmente mi domando perché scrivo ancora - su web o su carta, poco importa. Poi mi rispondo che il fine principale è quello di chiarirmi le idee, perché la mia coscienza sia testimone della storia che attraverso. In fondo Leibniz non aveva torto e neppure Maturana e Varela: siamo monadi autopoietiche; abbiamo in comune accoppiamenti strutturali, ma la storia che ci interessa è tutta dentro quel testimone della nostra esistenza che chiamiamo, non senza una certa promiscuità, coscienza.

Ormai quindici anni fa, tondi tondi, il sottoscritto scriveva in una delle parti da lui curate del lavoro corale Sesto Potere il paragrafo che segue. Non lo cito per rivendicare ridicoli riconoscimenti, ma solo per sottolineare come il "nuovo" che verrà sarà già stato vecchio molto tempo prima. La tecnologia è il dito che i geek stolti fissano per evitare di guardare la luna che da sopra sogghigna a guardare il nostro eterno infantilismo.

"Hans Moravec, responsabile del Mobile Robot Laboratory della Carnegie Mellon University, ciò a cui stiamo tendendo è di diventare de-gli Dei morti in qualche Olimpo a favore di una nuova specie robotica? Un po' come nel racconto di Borges, Le rovine circolari, in cui un mago trasformava il sogno di un essere nella sua concretizzazione reale, per poi scoprire che qualcuno aveva fatto un giorno lo stesso con lui? Veniamo dunque alla “fantascienza”. Nel suo libro Il gene egoista, Richard Dawkins concepisce un'umanità composta da ex-scimmie che, arrivate a modifi-carsi per ridurre gli atti e le decisioni ripetitive facendo uso di processi genetici, oggi sono giunte a creare una cultura talmente complessa da rendere obsoleti i tempi dell'evoluzione biologica. Per questo l'uomo oggi ha bisogno di macchine per “digerire tutta questa conoscenza”. Provate a domandarvi cosa accadrebbe se qualcuno da qualche parte nel mondo inventasse una macchina in grado di recepire dalla Rete delle reti tutte le conoscenze disponibili per poi elaborarle. Immaginiamo che si fossero inventati una serie di algoritmi combinatori che coniugassero le informazioni con degli schemi di significato per creare in continuazione nuovi testi, nuove teorie, nuovi racconti. Per scrivere le telenovela si fa già così. Siamo sicuri che sarebbe così impossibile creare una cultura delle macchine che si autoalimenti? Possiamo dirci certi che questa possa non risultare peggiore della cultura media di questo fine secolo? Ci troveremmo di fronte a una tale inflazione della conoscenza che la torre di Babele sarebbe paragonabile a una piccola disputa fra amici. Lo scollamento fra i nostri bisogni e la produzione culturale genererebbe un'esistenza paradossale e alienante. La cultura non verrebbe a essere più un bene, ma solo una forma di inquinamento. Lo scrittore di fantascenza Vernor Vinge sostiene che la curva di crescita delle conoscenze e della tecnologia, a causa di continue moltiplicazioni in tempi sempre più ristretti, arriverà a quello che egli chiama un “punto di singolarità”. Si tratta di quel momento in cui l'uomo non avrà più la capacità di assimilare e utilizzare l'informazione, le conoscenze e i mezzi per produrle e diffonderle finendo pertanto per separarsi dalla propria stessa cultura. Questa situazione, attesa per la prima metà del prossimo secolo, lascerà spazio solo all'imprevisto e all'assolutamente nuovo. A quanto cioè esca dai paradigmi culturali utilizzati finora. Qui si innesta la suggestione di Hans Moravec. Egli arriva a ipotizzare la realizzazione di quello che era il sogno di Nietzsche, il superamento della condizione umana. Le macchine portano avanti quell'evoluzione a cui non avrà più parte l'uomo, perché specie superata o perché grazie a que-sta delega avrà finito con il privilegiare altre mete. Potremo puntare a un ritorno allo stato primigenio, quello che precedette la nostra “missione” evolutiva, attraverso il recupero della dimensione tribale.

“Contrariamente alle convinzioni dei fanatici dell'etica del lavoro, il nostro passato tribale ci ha preparato – spiega Moravec – a una vita da nababbi. La vita dei cacciatori-raccoglitori doveva essere davvero piacevole: un pomeriggio trascorso all'aperto a raccogliere fragole o a pescare – quello che noi uomini civilizzati facciamo il fine settimana – dava di che vivere per parecchi giorni. Molte delle attuali tendenze presenti nei Paesi industrializzati lasciano presagire un futuro in cui gli esseri umani saranno supportati da una ricca economia basata sul lavoro dei robot, come i nostri antenati erano supportati dall'ambiente naturale che li circondava”. (...) Ma è davvero possibile un ritorno alla dimensione tribale nel contesto dell'odierna società dei consumi? I cacciatori-raccoglitori vivevano in gruppi di trenta-quaranta individui all'interno di spazi immensi ed erano scarsamente interessati all'accrescimento della ricchezza materiale al di là del li-vello di sostentamento. Inoltre, contrariamente alla nostra civiltà che ha completamente perso la dimensione del sacro, la loro preoccupazione principale era legata ai valori religiosi e alle attività cerimo-niali e rituali. (da Valerio Saggini, “La mente Immobile”, Virtual, n. 27 gennaio 1996, pag. 78)
Se questo può sembrare uno scenario fantascientifico, secondo l'accreditato futurologo John Naisbitt il processo di tribalizzazione sarebbe già in atto. Nel suo nuovo libro questo neo-tribalismo, contrapposto e complementare all'ideologia universalista di origine illuministica, è funzionale alla volontà di superare la dimensione politica globale per approdare a un'etica dei gruppi. Le tendenze nazionalistiche sempre più diffuse sarebbero quindi da reinterpretare in chiave di appartenenze più vicine, del bisogno di forme di comunicazione più coartate e meno “globali” seppure in presenza di una contemporanea globalizzazione radicale. Per esemplificare, immaginiamo un mondo in cui, non solo ogni stato, ma ogni regione, provincia, città avessero delle frontiere. La frontiera stessa perderebbe tutta la sua attuale importanza e paradossalmente ci troveremmo a vivere in un mondo in cui i singoli riuscirebbero a comunicare, a scegliere ognuno per la propria vita e ad avere un pensiero legittimamente localista, senza più confini seri da legittimare e riaffermare violentemente. Eticamente ci potrebbe essere quindi coesistenza di solidarietà ed egoismo, di interessi universali e cura del privato. Si vivrebbe con meno preoccupazioni della proprietà e con una percezione territoriale più allargata, ridimensionando l'attuale mobilità selvaggia di singoli e di gruppi. In un mondo simile potrebbe aver luogo quel recupero dei valori umani altrimenti impossibile. Il bisogno di tribalità (come si può leggere, nel senso positivo del termine) lo si può ravvisare nel sempre più abitudinario ritorno alla tradizione e alle culture dei vecchi, e ancor più, nel recupero in nuove forme dell'espressione di religiosità. Il richiamo al tribalismo fa tendenza e così, sulle orme del miracolo commerciale di Wired, accade che persino una rivista di costume e tendenze nostrana, Village, si ponga come riferimento per le tribù contemporanee. Tutto sembra indicare che il punto di svolta possa essere dato dal supera-mento dell'identificazione delle funzioni mentali in quelle del calcolo e del problem solving. È convinzione diffusa che delle nostre sole potenzialità cerebrali si stia sfruttando solo una minima parte. Delegare al computer quelle tradizionali potrebbe lasciarci molto più tempo per lavorare a identificare e potenziare le altre. Prima fra tutte proprio quella coscienza vigile che ci fa dire (parafrasando il Cogito cartesiano) che siamo in quanto ne siamo consci.
tratto da: Martignago, Pasteris, Romagnolo, Sesto Potere, Apogeo Editore, Milano, 1997



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