"E da ultimo c’è la morte. È comprensibile che in una civiltà che separa la mente dal corpo, si debba o cercare di dimenticare la morte o costruire mitologie sulla sopravvivenza della mente trascendente. Ma se la mente è immanente non solo nei canali d’informazione ubicati dentro il corpo, ma anche nei canali esterni, allora la morte assume un aspetto diverso. Il ganglio individuale di canali che io chiamo ’me’ non è più così prezioso perché quel ganglio è solo una parte di una mente più vasta. Le idee che sembravano essere me possono anche diventare immanenti in voi. Possano esse sopravvivere - se sono vere. (dal libro di Bateson: "Verso un’ecologia della mente", Adelphi, pag. 484)
La genesi scientifico-linguistica delle pratiche di controllo
Viviamo una vita improntata sul predominio del Significato, ma anche sulla strumentalizzazione del Significante. La dialettica tutta saussuriana che vede i due quasi momenti dell’espressione quasi in opposizione, in questi anni più che mai rivela come dominino due aree di governo del tutto complementari e profondamente affini.
Quella del Significato da intendere come “contenuto”, obiettivo finale del discorso che l’ermeneutica ha impoverito della sua univocità: “quello che si dice” non ha una sola possibile interpretazione, anzi sempre più spesso perde di credibilità (pensiamo al contenuto dei messaggi politici ed economici nei nostri giorni).
Allo scarto fra verità ed apparenza che abbiamo visto essere nel regno del significato fa da contraltare quello tutto formale dell’apparenza del significante, dove a detrimento della sacralità del simbolo, originariamente inteso come la concentrazione di più pensieri in una forma in grado di contenere molteplici discorsi e filoni interpretativi, oggi è l'espressione di un relativismo improntato, non dagli approcci teorici, ma dalla moda intesa come tendenza di comportamento e influenzamento dalle opportunità offerte di soddisfare piaceri e compiacimento personale.
In un simile contesto diventa difficile sostenere che il setting terapeutico possa essere portatore di univocità interpretativa come hanno da tempo più o meno direttamente sostenuto la maggior parte degli approcci, da quello psicanalitico a quelli cognitivi.
Bene o male queste strade si basavano sulla verifica della concomitanza fra il livello di realtà e quello della rappresentazione dell’individuo. Apparentemente decontestualizzati dai riferimenti moralistici, la maggior parte delle psicoterapie non ha potuto evitare, nel momento in cui si trova ad esprimere una valutazione sullo scarto fra realtà e rappresentazione, di esprimere giudizi o comunque valutazioni in termini di critica della correttezza esistente in questo scarto: “Tu ti vedi così, ma in realtà sei cosà. Fai le cose in questo modo, ma dovresti farle in quest’altro. Se fai così allora sei uno cosà”.
Questo atteggiamento frequentemente declina in una sentenza diagnostica, un meccanismo dilabeling, di etichettatura o di stigma (per usare i termini di Goffman): “Sei un depresso, sei un border-line…!”
In questi casi il significante è estremamente strumentale: la parola non determina una “cosa” e neppure un “concetto” o una “categoria” (nel senso kantiano), ma una procedura, una configurazione di connotazioni definitorie.
Per semplificare, possiamo immaginare che sia come in campo medico, dove c’è una differenza fra delle macchie sulla pelle, il morbillo e la sindrome psorica: il primo è un “oggetto” dai correlati fisici, il secondo un nesso causale fra oggetto e agente (il virus del morbillo), mentre il terzo è una concomitanza di fenomeni selezionati a cui gli osservatori attribuiscono delle affinità e una comunanza di valore quasi statistico e comunque decisamente arbitrario.
Nel campo della sofferenza psicologia dai medici definita cacofonicamente psicopatologia ci si muove decisamente nell’ultimo ambito, in quanto non esistono oggetti circoscritti con un rapporto uno a uno fra cosa e parola e neppure fattori eziogenetici univoci. Questo vuol dire che potremmo creare tante sindromi quante sono le fenomenologie selezionabili e collazionabili sotto un unico termine da un osservatore con potere significante.
Ancora una volta, la superstizione su cui muovono queste prassi di potere “scientifico” è quella di potere esercitare un controllo sull’evento clinico o banalmente comportamentale. Di fatto per parlare di scienza occorre, seguendo il protocollo galileiano, potere riscontrare la ripetitibilità dei fenomeni e soprattutto la capacità preditiva, oppure, sotto il profilo popperiano, essere suscettibile di falsificazione del modello di spiegazione. E non è questo il caso. Si può quindi parlare più di “sapere” che di “scienza”, dove con il primo termine si intende una pratica di potere, come viene fatto dire al Nietzsche di Foucault che “Il sapere non è fatto per conoscere, ma per prendere posizione”.
Il Bisogno di Controllo
Fra la macchina significante (Lacan) del modello medicale psicopatologico, dal quale non sono esenti pratiche varie a partire proprio dalla stessa psicanalisi, e l’ipnosi ericsoniana sotto il profilo della gestione del potere passa un vero e proprio oceano.
Nonostante questa differenza, neppure Erickson è esente da meccanismi di giudizio decisamente forti. Ne sono esempi i seminari curati da Jay Haley dai quali escono fuori delle visioni spesso convenzionali sugli indirizzi insiti nell’individuo e nella coppia, quasi che avessero un valore universale che invece anche solo sotto il profilo antropologico sono facilmente smentibili. Tuttavia, fra l’esercizio del potere di una diagnosi dell’apparato stigmatizzante della psicopatologia medica e quella dell’uomo comune di Erickson, sul piano dell’onestà c’è un’enorme differenza a favore di quest’ultimo.
Il pensiero debole dell’ermeneutica della fine del secolo scorso e ancora di più il modello di società liquida descritto più recentemente da Bauman hanno da tempo attutito la zampata dell’orso terapeutica a vantaggio di pratiche più fluide, provvisorie, flessibili, deboli, paritetiche…
È anche vero, tuttavia, che la richiesta di diagnosi forti sta tornando imperiosa spesso da parte degli stessi clienti che sentono il bisogno di trovare un termine univoco per quello che si trovano a vivere, evitando che assuma i connotati sfuggenti che tutto sembra dover presentare in questo cambio di millennio. La gente vuole dare un nome a quello che prova e pensare che quelli che glielo danno almeno conoscano di che cosa si tratta: “Se anche devo morire è fondamentale che sappia di che cosa”, è l'autoritario e saccentemente presuntuoso modello dei telefilm del dr. House. È, cioè, il paziente stesso che spesso richiede un controllo, l’esercizio di una polizia delle emozioni che eserciti un’autorità di contenimento sull’esperienza vissuta.
Dall’altro lato, il terapeuta sente il bisogno di un apparato di significazione nel proprio bagaglio professionale per potere esercitare l’autorevolezza che gli permette di essere credibile e di fatturare per una prestazione fondata sulla certificabilità anche se del tutto soltanto letteraria (tanto le sfumature il cliente non le conosce). Anche il docente, il formatore, l’insegnante di materiali psicologici sente il bisogno di esercitare questo controllo garantito proprio dall’apparato significante fornito da vere e proprie metafore scientifiche. È il caso del connubio fra psicologie e neuroscienze, come dice la testata della rivista, fra “Mente e Cervello”, dove la mente è un fenomeno concettuale filosofico e psicologico, mentre il cervello è l’oggetto studiato dai causalisti anatomo-fisiologici. Questo mix è del tutto aporetico perché due modelli in profondo conflitto di moventi, di metodi e di approdo come la fenomenologia e il causalismo non possono essere fatti incontrare per poi dire che sono la stessa cosa.
Dal controllo alla transe
Insomma, esiste una scelta politica di fondo che chi esercita una pratica di aiuto, sia essa terapeutica o di counseling, deve agire a monte del proprio operato nei confronti del paradigma del controllo.
Scegliere sei vuole costruire una storia con un suo sviluppo e una sua morale assieme al cliente/paziente o se si vuole attribuire un significato deterministico all’esperienza dell’altro. La prima strada è certamente più impegnativa e gravata dalle incertezze esistenzialiste, laddove la seconda è certa, autorevole, quanto arbitraria e autoritaria.
Una prima via democratica, come accennavamo, è quella delle pratiche non direttive, dalla terapia del counseling orientato al cliente di Carl Rogers, alla pratica dei costrutti personali di George Kelly, fino all’ipnosi non direttiva di Milton Erickson.
Una seconda strada è quella del modello della black box tipico, sia della fenomenologia sistemica e della terapia della famiglia dall’MRI in poi, che della NLP, la programmazione neurolinguistica tutte legate dalla teoria autopoietica e costruttivista. Questi approcci si fondano sull’ignoranza programmatica operativa a proposito dei contenuti dell’altro.
Tacciata per questo, soprattutto dai contenutisti come gli psicanalitici, di superficialità, per i suoi sostenitori è piuttosto una pratica di libertà, di rispetto del mondo, dei valori e dei significati dell’altro. Anche in questo approccio esiste una qualche forma di controllo nella gestione del setting che prevede comunque un certo esercizio della valutazione e del giudizio. In questo caso, infatti, io, fornitore d’aiuto, non devo per questo fatto arrogarmi il potere di attribuire un significato, di valutare e in ultima analisi di giudicare o etichettare la persona che viene da me. Lavoro solo sulle sue (il Bilancoamento Dinamico parlerebbe delle "nostre") modalità in funzione di un cambiamento adattivo il più vicino possibile alla richiesta che mi viene espressa.
Spesso la trasformazione, soprattutto quando felicemente riuscita, può non venire neppure percepita dal destinatario se non per una progressivo venire a mancare della domanda di terapia. È molto frequente la debole attribuzione al terapeuta o al counselor dell’efficacia, spesso riconosciuta al cliente stesso, a fattori ambientali o al caso. Queste pratiche usano il controllo esclusivamente sull’apparato tecnico e sugli utensili metodologici di natura frequentemente strategica utilizzati dal counselor.
Esiste infine una terza via che, pur sviluppandosi sul solco delle due strade appena presentate, dilata ulteriormente l’apporto del terapeuta. È un approccio che si fonda sulla condivisione degli stati di conoscenza messi in atto nel setting, anche se in questo possono venire evocati paradigmi del tutto eterogenei. Gli strumenti sono intercambiabili ed eclettici come pure le teorie di riferimento che da metro di giudizio diventano tecniche, utensili, rinnegabili nel momento stesso della loro affermazione.
La dilatazione e la contrazione dello stato di coscienza e la delega della funzione di attore terapeutico ad un’egida assente, sia essa l’inconscio, uno spirito guida, presenze angeliche, sia come oggetto di credenza, sia come puro e semplice stratagemma retorico sono le caratteristiche portanti di questo approccio utilizzato da consulenti che il più delle volte fanno riferimento a pratiche esoteriche o new age, sistematizzato e teorizzato dal Bilanciamento Dinamico (DBM).
In questo caso il paradigma del controllo ha decisamente abdicato la propria funzione al punto, non solo di scomparire, ma persino di essere manipolato apertamente e dichiaratamente “Ti dico che è così, ma non lo so: penso solo possa essere utile farlo, ma se non ci convince possiamo fare esattamente l’opposto. L’importante è che riusciamo a sostenere una relazione soddisfacente e proficua che prosegue al di là del termine della seduta e dell’uscita dal setting”.
Il terapeuta ignora le origini, se ne frega della verità e sa che non esiste una sola realtà univoca. A lui non importa se il cliente tornerà e come andrà a finire, anche quando propone un percorso o invita a un ritorno. Confida ardentemente sul destino che guida gli incontri e le separazioni. Il percorso terapeutico è aleatorio, un costruirsi di senso da percorsi stocastici, come le forme scaturite nei cieli dai voli degli storni. Ma non è inconsistente e apparente, non è puro significante: si esprime al meglio nel concetto di mindfullness.
La pienezza di un’esperienza fondata sui movimenti della coscienza in accoppiamento strutturale tipica della relazione di aiuto, carica di autorevolezza, quanto del tutto scevra di autorità e di procedure di controllo sono le caratteristiche di questa strada che porta ad una relazione d’aiuto scalza, il cui svantaggio principale è il rischio di non essere certificata e quindi di essere oggetto di facile appropriazione indebita, come tutte le forme di democrazia, che più si fanno avanzate più sono fragili e possono far conto solo sull’onestà e sull’integrità di chi la esercita e di chi ne beneficia. Una strada insomma che richiede la maturità e la saggezza cui saremo costretti ad approdare in questo terzo millennio, se non vogliamo che l’intera specie umana scompaia meritatamente.
È la via terapeutica dello Zarathustra di Nietzsche, “una corda tesa fra l’animale e il superuomo, una corda sopra un abisso”; quello della coscienza che sta fra noi e la mente dell’universo.