23 febbraio 2005

Il manager diffuso

I modelli industriali stanno vivendo qualcosa di analogo alla crisi dell’idealismo che all’inizio del secolo venne segnata dalle nuove epistemologie, dalla psicanalisi, dalla letteratura della spersonalizzazione e da tutte quelle forme di pensiero che hanno corroso la centralità dell’io e del soggetto forte.
È il modello della “Grande Impresa” e non necessariamente quella o l’altra corporation a rendersi evanescente e non certo a beneficio dalla media o della piccola.
Quello che accade è piuttosto la perdita di significato di “grende, medio e piccolo”. L’economia dei Leoni è alla frutta, ma anche le Volpi di Pareto ben difficilmente torneranno.
Gli ultimi grandi timonieri li abbiamo seppelliti o mandati in pensione. Quelli che occupano le poltrone altissime sono gli ultimi fuochi riverberanti un passato dove il sipario è calato tanto sulle luci che sulle ombre.

Già Weick ci aveva insegnato che l’Organizzazione non esiste: esiste solo l’organizzare. Ora non resta che andare a fondo della revisione introdotta da Mintzberg negli anni ‘80, per affermare che i Manager sono morti. Tutti. Da tempo. Non esistono più.
E quelli che si fanno chiamare così, allora? Sono epifenomeni. Non ci sono i manager, ma esiste il management. Ovverosia oggi più che mai si lavora di managerialità. Anzi, l’azienda più competitiva è quella centrata su competenze pregiate initmamente permeate di una condivisione di managerialità.

Per insegnare questo fenomeno dovremmo cominciare a gettare alle ortiche i tradizionali cataloghi di formazione e ripensare la formazione manageriale come un fenomeno diffuso, condiviso, leggero, debole.

Per parafrasare il primo post di Personal Coaching: il manager che non sei è il manager che è anche in te.

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