Due tendenze opposte si vanno facendo strada nella domanda di coaching.
La prima si riscontra soprattutto fra le medie e le medio-piccole imprese e si traduce in "richiesta di coinvolgimento". Si ha a che fare con gruppi costituiti per lo più da giovani con scarsa esperienza manageriale che mancano di senso di intraprendenza organizzativa e responsabilizzazione al cambiamento e al business. Raramente queste imprese possono contare su manager di mezza età e quando ci siano sono poco disponibili a fare da testimoni alle giovani generazioni. In genere a promuoverla è il vertice aziendale stesso, non di rado ridotto all'osso e obbligato a farsi carico di impellenze organizzative che si vorrebbero svolte da figure intermedie.
La seconda è ancora più interessante perché la si riscontra sempre più frequentemente e principalmente nelle organizzazioni di grandi e medio-grandi dimensioni. A esprimerla sono soprattutto i manager intermedi stessi e più in generale i colletti bianchi. Si traduce in un bisogno di desensibilizzazione. Frustrati da una perdita di valore del proprio ruolo e da una squalifica, sia in termini di soddisfazioni personali che di incidenza nelle politiche aziendali, pur cercando di tutelare la propria posizione di lavoro, si rendono conto che sta diventando per loro vitale smettere di nutrire aspettative dal lavoro e dalla responsabilità aziendale e chiedono pertanto di riuscire a disinvestire, a vivere la vita lavorativa in un altro modo - più disimpegnato e situazionista. Chiedono soprattutto un aiuto per organizzarsi il quotidiano spostando gli investimenti nel personale e nella vita extra-lavorativa, magari anche negli spazi e nei luoghi del lavoro, sviliti e declassati dalle strategie direzionali.
Se le mettete assieme potrà scaturire un quadro abbastanza chiaro delle politiche economiche e industriali di questi anni.
Ne sortirà anche un chiaro impegno e un ruolo fondamentale del coaching nel cambiamento morale ed esistenziale di questa transizione confusa e troppo spesso irresponsabile.
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