17 aprile 2010

Disidentità socio-economiche

Piano piano, ciò che si temeva si sta verificando. Incominciano ad emergere forme di alienazione derivate da una ristrutturazione socioeconomica troppo repentina.
Innanzitutto smettiamola di abusare di un termine così superficiale come quello di "crisi". Una crisi è un fenomeno ciclico che fa parte del procedere coerente di un modello: il tempo cambia e non c'è sempre il sole, quando grandina è una crisi, ma è normale nel tempo.
In questo caso è il modello che non funziona più. È come se nell'Australia l'estate arrivasse nel nostro stesso periodo invernale ma con le caratteristiche della tundra siberiana. Un pezzo alla volta i nostri riferimenti vanno a farsi benedire.
Questo di per sè non sarebbe stato così grave negli anni '60 o '70. In quei tempinla gente, appena uscita dalla guerra e dalla ricostruzione sapeva che la vita era dura e che tutto quello che ti conquistavi lo dovevi fare con sangue, sudore e lacrime. Soprattutto con inventiva e coraggio. La capacità adattiva era notevolmente superiore e con essa la consapevolezza che dovevi lottare per quello che contava e che il superfluo non era un problema.
Con gli anni '80 invece si è assistito ad una sorta di automazione dei meccanismi socio-economici. La carriera diventa un lungo fiume tranquillo per quanto pieno di contraddizioni; non si guadagna più per quello che si fa, ma per la capacità di speculare su passaggi strategici di cicli commerciali e finanziari. All'inizio queste erano opportunità e comportamenti. Poi sono rapidamente diventati elementi di identità. Essere laureato era uno status che doveva pagare di per sè. Un laureato che facesse l'operaio era un fallito. Dall'altro lato, laurearsi era molto più facile che negli anni '50.
Oggi le persone pensano ancora così, ma è il mondo che non funziona più così, giusto o sbagliato che sia.

Quello che vado affermando è più chiaro a chi conosce Berger e Luckman e la loro "Realtà come costruzione sociale", oltre al grande padre Durkheim. Provate però a pensare a delle persone che giungono in un'isola deserta e che per sopravvvivere si diano delle regole di comportamento (avete visto il film "The Village"?). A loro è noto il significato di quelle regole, ma con il passare delle generazioni quelle divengono "natura", leggi ovvie e connaturate allo stato civile, se non addirittura a quello naturale.
La messa in discussione o il sovvertimento di quelle abitudini equivale alla perdita di quelle regole. Senza regole sociali la prima e più grave conseguenza è il non sapere più dove collocare se stessi. La mancanza di una geolocalizzazione nella mappa sociale e anagrafico-valoriale. In parole povere, la perdita di identità sociale aggravata dal fatto di vivere in un mondo dove tutto è diventato troppo automatico, troppo procedurale, troppo normato, troppo etichettato, saturo di bisogni superflui che però hanno assunto un valore più determinante di quello biologico. Non è follia pensare che è più difficile rinunciare al cellulare che al pranzo. Negli anni '60 o '70 non si parlava a tavola, neppure si accendeva la TV che in molte case non c'era così come il telefono e di certo non si interrompeva il pasto per telefonare. Oggi devi convincere tu figlia a continuare gli SMS da tavola. Come potrebbero sospendere un mondo di sovrastrutture per tornare ai cosiddetti fondamentali, per far valere diritti, per tornare a costruire il mondo invece di posizionarsi all'interno di una catena di montaggio?

Psicoterapeuti, counselor, specialisti HR, assistenti sociali e tutte le professioni d'aiuto, se già non le hanno riscontrate, si troveranno sempre più spesso a fare i conti con patologie da alienazione, ovvero disidentità il più delle volte molto gravi.
Non chiamatele "effetti della crisi economica"!
Sono forme di saturazione di un modello artefatto, irrazionale e disumanizzante in cui abbiamo vissuto per almeno 30 anni.
Che cosa fare? Cercare di rompere gli schemi; ma essendo il più delle volte questo impossibile, almeno frammentarli gradualmente intervenendo con tempestività; recuperare i fondamentali; educare alla disassuefazione dal superfluo; destrutturare la mentalità procedurale; rivolgersi ad altri valori che non siano il successo o la carriera; recuperare la contiguità fra l'azione e il risultato; restituire la socialità del filò contro quella dell'istituzione sociale. Soprattutto tornare a scoprire il significato della morte, perché alla fine è solo quello a restituire dignità al vivere in una maniera, per quanto soggetta a tutte le fedi possibili, in maniera totalmente inopinabile.

-- Postato con BlogPress dal mio iPod Touch

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