«Sono nato senza alcun significato.
Poi mi hanno dato un nome e con esso sono stato contagiato.
Ho scoperto che cosa vuole dire separazione dopo che sono stato confinato nella gabbia del significato che mi hanno imposto e con la quale mi hanno obbligato ad identificarmi. Tutto quello che non stava nella mia etichetta lo avevo perso.
Per la prima volta ho provato la solitudine.
Gli altri mi chiamavano per nome e quindi ho creduto che fosse un bene. Con il tempo ho capito che questo bene si chiamava amore e che per potere essere amato dovevi essere distinto… separato… dovevi sentirti solo!
Ho passato una vita a colmarmi di significato per compensare la maggior parte di quello che mi era stato sottratto per il mio bene, per essere amato. Ora che sono pieno di significati e che sono anche diventato un prestigiatore del significato, faccio trucchi per fame d'amore, ma non sono ancora sazio, non ho colmato il vuoto della mia separazione, ho a malapena graffiato la superficie di quello che sarei stato senza un nome.
"Il senso della vita": pasticcio retorico! La vita non sta nei suoi significati. Anche questo però è un significato? Forse… oppure no: può anche solo essere una storia, un racconto, un road movie: "getta il cuore dopo l'uscio e buttati fuori senza domandarti come andrà a finire il libro… se l'assassino sia veramente il maggiordomo…"
In tutti i telegiornali, quando capitano i disastri si finisce dicendo che si sta accertando di chi sia la colpa… come se scoprirlo ne conferisse un significato e che questo potesse liberarsi dalla paura e dall'orrore, come diceva il colonnello Kurtz-Brando.
Ogni giorno imparo ad essere più solo, a disintossicarmi dal bisogno di amore con cui ho cercato di curare quel vecchio contagio, nella presuntuosa speranza di morire libero dalla paura. Se di una certezza dovessi menar vanto in questo fasullo mondo di linguaggio e parole, è che curiamo il male con la stessa sostanza che ne è la causa, come se dovessimo vaccinarci, come per una cura omeopatica. Combattiamo, infettando di significato quello che non sembra averne, la paura derivante da non riuscire a identificare, ad etichettare, a "comprendere", ovvero a chiudere dentro, nel recinto delle parole, quello che altrimenti sarebbe puro fenomeno, senza realizzare che è il significato, e quindi l'etichetta del nome, la madre e il padre di tutte le paure e dell'orrore.
Solo nella solitudine che vince il significato si è veramente liberi dalle paure. Si coglie con il sentire che gli altri ci sono tutti dentro la mia solitudine satura e appassionata e che questa mi fa vivere meglio e più pienamente, con maggior senso di vicinanza anche lo stare in compagnia. Quanto è più "piena" la compagnia trascorsa nel silenzio consapevole, proprio perché è felicemente sgombro dalle parole e dall'astinenza per la loro assenza!
Ora che sono vecchio, un vecchio arrugginito prestigiatore, vedo che mi sono dannato tanto per scoprire che la felicità non è altro che una pace appassionata e che questa deriva dalla capacità di vivere una solitudine senza sofferenza, una solitudine senza il vuoto sporco della noia, ma totalmente immersa in quello luminoso della vita, una storia che finalmente non si risolve nella sua morale, che non voleva dire niente, o almeno, niente di speciale: felicemente in-significante!»
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