01 gennaio 2005

Di che coaching sei?

Quando 20 anni fa e forse un po' di più :-( cominciai a dedicarmi alla formazione le bibbie che studiavo già parlavano di coaching come di un'esperienza vecchia, marginale.

Era il fio che il capo squadra doveva pagare all'azienda quando arrivava un nuovo assunto. Già allora aveva un termine più proprio in italiano, ma già allora parlare di "affiancamento" stava così maaalee... Era quasi degradante.

Oggi per farsi capire bisogna usare lo stesso termine che però, al contrario di allora, sta alla formazione come l'alta moda sta al pret-a-porter.

Nonostante mi sia appropriato da circa 20 anni delle stesse tecniche a stelle e strisce cui attingono certi coach, non cerco quel tipo di rapporto e sono sicuro che qualche cliente potrebbe restarne deluso.

Mi viene, a questo punto, fatto di pensare a lui, al cliente di coaching. Bisognoso di un miracolo che possibilmente lo coinvolga il meno possibile. Quello che si vuole mettere in mano a qualcuno che faccia tutto da solo e che lo rimetta a nuovo. E penso anche a quello un po' più evoluto, che vuole essere padrone delle proprie trasformazioni che crede nel lavoro su se stesso, a volte anche duro e del valore dei risultati.

Penso a loro e comprendo che non ci sono parole che non siano già usate a sproposito da tutti per orientarlo nella scelta delle mani in cui mettersi.

A volte seguono il consiglio di qualche amico o collega: "E' stato proprio un fine settimana esaltante. Mi sento diverso. Sono cambiato in un paio di giorni. Devi proprio provarlo anche tu!"

La sola cosa che riesco a dire è che non tutti i coaching sono dello stesso segno come non lo sono i clienti e probabilmente occorrerebbe una certa sinastria in un rapporto d'aiuto. È però qualcosa di pelle. Occorre sentirsi entrambi. Oppure essere entrambi di bocca buona.

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