A seconda delle dimensioni dell’azienda il coaching può essere motivante, competitivo o aggressivo in funzione di come il cambiamento economico condiziona il mercato e la cultura d’impresa. La vera novità è però rappresentata soprattutto dall’aiuto alla de-programmazione al lavoro e alla desensibilizzazione morale del lavoratore.
La maggior parte delle richieste di prestazioni di coaching sono finora giunte dalle aziende. La domanda è in genere motivata da delle trasformazioni organizzative o di mercato che coinvolgono in maniera problematica la maggior parte dei dipendenti e in particolare i livelli intermedi.
La novità è che all’indirizzo del coach o dello psicologo clinico cominciano ad arrivare domande di trattamento individuale di tipo diametralmente opposto.
Laddove in genere il Corporate Coaching punta ad un maggiore coinvolgimento, il Personal Coaching di manager, professional e anche executive va con una certa frequenza nel senso della desensibilizzazione.
Anni incerti
Non si tratta di essere pessimisti o ottimisti. Stiamo vivendo anni di svolta da molti punti di vista. Il sistema economico sta traversando un rivolgimento profondo per il quale si fatica ancora a trovare spiegazioni organiche e soprattutto a fare previsioni. Le implicazioni più evidenti riguardano il mercato del lavoro. Le grandi imprese, soprattutto, stanno riducendo sensibilmente i loro organici. Il lavoro che viene eseguito al loro interno è sempre più ridotto. Una conseguenza immediata di ciò è che, non essendoci molte persone o strutture da coordinare, c’è sempre meno bisogno di quadri intermedi. A questo si aggiunga che si tende a far convergere un numero sempre maggiore di responsabilità su pochi quadri e di livello - e quindi remunerazione - a “scarto ridotto”. La prospettiva di evoluzione professionale ed economica non fa guardare lontano. È più facile ottenere anche ottime soddisfazioni e premi per incarichi brevi piuttosto che modeste ma a lunga scadenza, come capitava nella visione della carriera tradizionale.
Di sicuro la prospettiva del “posto” - non solo quello “sicuro” - non ha più senso, è un vuoto a perdere.
Il lavoro si decentra. Le grandi imprese se ne liberano. Come sostengono alcuni consulenti, queste tendono sempre più a coincidere con il loro top management. L’outsourcing diviene sempre più radicale, essendo rivolto non solo più all’attività operativa, ma persino a quella decisionale, ai tradizionali supervisori. È difficile dire se questa tendenza sia giusta o sbagliata, se abbia il fiato lungo o corto. Di certo c’è che si sta verificando, nel bene o nel male. Gli effetti industriali ed economici non li può prevedere ancora nessuno. Per ora ci si buttano tutti, come cercatori d’oro o come lemmings, non si sa. Sono sicuro che le conseguenze di questo trend ci stupiranno e avremo a che fare con un mondo inedito. Il mondo non cambia solo in relazione alle scelte dall’alto, ma anche e soprattutto alle risposte che provengono dall’ecosistema sociale.
Capita infatti che confederazioni e istituzioni insistano con messaggi e pubblicità rivolte al cittadino perché aumenti il suo consumo, mentre vengono varati piani industriali (dalle leggi sul lavoro ai piani aziendali) che rendono sempre più precari salari e sicurezza economica del lavoratore. È quantomeno patetico questo costume volto ad avere la botte piena e la moglie ubriaca.
Alcuni imputano alla Cina le ristrettezze del mercato occidentale, quando il vero problema è l’etica degli affari e la tendenza a una sempre maggiore sperequazione, al divaricarsi della forbice fra i tanti che hanno veramente troppo, i tanti che non hanno niente e la moltitudine che non ha abbastanza.
Sfruttando l’ambiguità
Nello stesso senso va la gestione del personale e del management nelle grandi imprese: troppo spesso si spingono le persone a farsi carico di competenze più ampie e più coinvolgenti e rischiose senza riconoscere alcunché. Il paradosso è che si vorrebbe pagare in lavoro, quasi che le persone dovessero sentirsi onorate se, per aver perseguito adeguatamente il proprio obiettivo, si trovano a ricevere incarichi ancora più gravosi e responsabilizzanti, senza peraltro perdere quelli pregressi.
Le vecchie superstizioni di carriera qui e là hanno ancora il loro effetto e si riesce ancora a convincere qualcuno che si tratti di un meccanismo premiante e che, prima o poi, questo porterà a dei vantaggi reali e non solo formali.
Nel frattempo il malessere si diffonde. Fra i livelli intermedi la crisi è in fase avanzata. Si tratta di quella che Durkheim chiamava anomia: uno scarto fra identità e esistenza (e ruolo). Per un certo tempo le persone si agitavano per trovare delle alternative, magari rimanendo all’interno della stessa azienda. I quarantenni, dopo avere trascorso una vita in attesa di maturare i privilegi che rinunce e fatiche lasciavano presagire, si scoprono a fine corsa, sostituiti da giovani sottopagati, anche loro sedotti dalla speranza di uno sviluppo che si profila invece ancora più a rischio.
Il cambiamento generale è stato tutto sommato repentino e troppi dipendenti sono stati presi in contropiede, tanto da non capacitarsi di quello che succedeva. Solo negli ultimi tempi le persone si stanno rassegnando. È di un anno il “caso” di successo di un libro, Buongiorno Pigrizia del quadro “elettrico” francese Corinne Maier, che invita alla dissimulazione: riempirsi la bocca di parole anglofone del tutto irrilevanti, assecondare le strategie degli altri, ma guardarsi bene dal lasciarsi coinvolgere e, più in generale, spostare i propri investimenti assolutamente al di fuori dell’impresa.
Più facile a dirsi che a farsi.
Desensibilizzare
Ci si comincia a rendere conto che il lavoro per molti è diventato una droga e che smettere, non tanto di lavorare, quanto di credere nel lavoro corrisponde a superare dolorose, laceranti, dilanianti crisi di astinenza, peggio che per una delusione d’amore, una separazione e un lutto messi assieme.
Quella che si va facendo strada sempre più, soprattutto dalla clientela individuale, è una domanda di aiuto a prendere le distanze dal ruolo. Livelli intermedi depressi, incapaci di accettare la disillusione e mortificati dalla squalifica
La via della desensibilizzazione può essere impegnativa. Richiede un lavoro anche intenso sugli impliciti valoriali e sulle convinzioni di intere generazioni. La fascia più critica è quella che va dai 35 ai 50 anni, sia per le ragioni di precarietà che riscontrano in questa “età di mezzo”, sia perché sono quelle che sono state programmate ad un modello di vita che non trova più riscontri oggettivi.
Il lavoro consiste in genere in più fasi: la prima è frequentemente quella di recupero o addirittura di cura degli effetti della crisi di ruolo o di identità - dall’ansia alla depressione, fase che può risultare anche abbastanza lunga. La seconda consiste nella vera e propria de-programmazione: una fase intensiva di durata medio-breve. Una terza è quella di sostegno all’installazione del nuovo modello: un periodo di interventi posizionati a una certa distanza fra loro, di carattere essenzialmente strategico, finalizzati a elaborare insieme tattiche per rispondere ai tentativi di omologazione e mobbing che l’ambiente facilmente agiterà nei confronti del lavoratore.
Quello che il cliente deve necessariamente realizzare è il principio che la salute, la sopravvivenza e la qualità della vita sono un diritto che viene prima di ogni dovere lavorativo e che questo particolare tipo di disobbedienza non è una forma di disonestà, ma casomai il contrario: l’affermazione del principio della salute della persona che stimola anche la salute organizzativa.
Dimensioni e bisogni
Le dimensioni delle aziende producono domande di coaching di tipo diverso fra di loro. La grande impresa ha due alternative. La prima consiste nel disinteressarsi dei dipendenti, nel metterli al margine, sostituirli e generare quindi domande di desensibilizzazione. Diversamente, vuoi per riparare ai danni prodotti con atteggiamenti simili a quello appena espresso, vuoi per affrontare il cambiamento di paradigma che questi tempi impongono, seguirà la necessità di motivare il proprio personale e in particolare i quadri intermedi. A seconda della serietà degli intenti un lavoro di questo tipo potrà essere costruttivo o palliativo.
Anche l’azienda di medio-grandi dimesioni potrà avere richieste di motivazione al cambiamento. Quanto più ci si spingerà verso le dimensioni medie e medio-piccole lo scenario con cui si dovrà fare i conti sarà quello della competitività. Il lavoro sarà quindi volto a realizzare dei team compatti, sinergici, affiatati e spesso aggressivi nei confronti del mercato e dei concorrenti. La competitività sarà un modello trasversale in quanto non è rivolto solo al mercato, ma anche ai colleghi. In queste realtà la negoziazione individuale potrà essere elevata e prevedere scarti di trattamento e autonomia anche estremi in funzione dei risultati e dei rischi. La precarietà del “posto” e l’elevato turnover che mettono a rischio le sicurezze dei lavoratori così come le capacità di programmazione e di durata dell’impresa possono costituire uno sprone a giocare sempre il tutto per tutto. Il coaching qui si farà particolarmente dinamico e agonistico.
Più ci si spinge verso il piccolo più i lavori sono dimensionati al breve e al ridotto, ad alta intensità, con obiettivi puntuali e verificabili nell’immediato.
La maggior parte delle richieste di prestazioni di coaching sono finora giunte dalle aziende. La domanda è in genere motivata da delle trasformazioni organizzative o di mercato che coinvolgono in maniera problematica la maggior parte dei dipendenti e in particolare i livelli intermedi.
La novità è che all’indirizzo del coach o dello psicologo clinico cominciano ad arrivare domande di trattamento individuale di tipo diametralmente opposto.
Laddove in genere il Corporate Coaching punta ad un maggiore coinvolgimento, il Personal Coaching di manager, professional e anche executive va con una certa frequenza nel senso della desensibilizzazione.
Anni incerti
Non si tratta di essere pessimisti o ottimisti. Stiamo vivendo anni di svolta da molti punti di vista. Il sistema economico sta traversando un rivolgimento profondo per il quale si fatica ancora a trovare spiegazioni organiche e soprattutto a fare previsioni. Le implicazioni più evidenti riguardano il mercato del lavoro. Le grandi imprese, soprattutto, stanno riducendo sensibilmente i loro organici. Il lavoro che viene eseguito al loro interno è sempre più ridotto. Una conseguenza immediata di ciò è che, non essendoci molte persone o strutture da coordinare, c’è sempre meno bisogno di quadri intermedi. A questo si aggiunga che si tende a far convergere un numero sempre maggiore di responsabilità su pochi quadri e di livello - e quindi remunerazione - a “scarto ridotto”. La prospettiva di evoluzione professionale ed economica non fa guardare lontano. È più facile ottenere anche ottime soddisfazioni e premi per incarichi brevi piuttosto che modeste ma a lunga scadenza, come capitava nella visione della carriera tradizionale.
Di sicuro la prospettiva del “posto” - non solo quello “sicuro” - non ha più senso, è un vuoto a perdere.
Il lavoro si decentra. Le grandi imprese se ne liberano. Come sostengono alcuni consulenti, queste tendono sempre più a coincidere con il loro top management. L’outsourcing diviene sempre più radicale, essendo rivolto non solo più all’attività operativa, ma persino a quella decisionale, ai tradizionali supervisori. È difficile dire se questa tendenza sia giusta o sbagliata, se abbia il fiato lungo o corto. Di certo c’è che si sta verificando, nel bene o nel male. Gli effetti industriali ed economici non li può prevedere ancora nessuno. Per ora ci si buttano tutti, come cercatori d’oro o come lemmings, non si sa. Sono sicuro che le conseguenze di questo trend ci stupiranno e avremo a che fare con un mondo inedito. Il mondo non cambia solo in relazione alle scelte dall’alto, ma anche e soprattutto alle risposte che provengono dall’ecosistema sociale.
Capita infatti che confederazioni e istituzioni insistano con messaggi e pubblicità rivolte al cittadino perché aumenti il suo consumo, mentre vengono varati piani industriali (dalle leggi sul lavoro ai piani aziendali) che rendono sempre più precari salari e sicurezza economica del lavoratore. È quantomeno patetico questo costume volto ad avere la botte piena e la moglie ubriaca.
Alcuni imputano alla Cina le ristrettezze del mercato occidentale, quando il vero problema è l’etica degli affari e la tendenza a una sempre maggiore sperequazione, al divaricarsi della forbice fra i tanti che hanno veramente troppo, i tanti che non hanno niente e la moltitudine che non ha abbastanza.
Sfruttando l’ambiguità
Nello stesso senso va la gestione del personale e del management nelle grandi imprese: troppo spesso si spingono le persone a farsi carico di competenze più ampie e più coinvolgenti e rischiose senza riconoscere alcunché. Il paradosso è che si vorrebbe pagare in lavoro, quasi che le persone dovessero sentirsi onorate se, per aver perseguito adeguatamente il proprio obiettivo, si trovano a ricevere incarichi ancora più gravosi e responsabilizzanti, senza peraltro perdere quelli pregressi.
Le vecchie superstizioni di carriera qui e là hanno ancora il loro effetto e si riesce ancora a convincere qualcuno che si tratti di un meccanismo premiante e che, prima o poi, questo porterà a dei vantaggi reali e non solo formali.
Nel frattempo il malessere si diffonde. Fra i livelli intermedi la crisi è in fase avanzata. Si tratta di quella che Durkheim chiamava anomia: uno scarto fra identità e esistenza (e ruolo). Per un certo tempo le persone si agitavano per trovare delle alternative, magari rimanendo all’interno della stessa azienda. I quarantenni, dopo avere trascorso una vita in attesa di maturare i privilegi che rinunce e fatiche lasciavano presagire, si scoprono a fine corsa, sostituiti da giovani sottopagati, anche loro sedotti dalla speranza di uno sviluppo che si profila invece ancora più a rischio.
Il cambiamento generale è stato tutto sommato repentino e troppi dipendenti sono stati presi in contropiede, tanto da non capacitarsi di quello che succedeva. Solo negli ultimi tempi le persone si stanno rassegnando. È di un anno il “caso” di successo di un libro, Buongiorno Pigrizia del quadro “elettrico” francese Corinne Maier, che invita alla dissimulazione: riempirsi la bocca di parole anglofone del tutto irrilevanti, assecondare le strategie degli altri, ma guardarsi bene dal lasciarsi coinvolgere e, più in generale, spostare i propri investimenti assolutamente al di fuori dell’impresa.
Più facile a dirsi che a farsi.
Desensibilizzare
Ci si comincia a rendere conto che il lavoro per molti è diventato una droga e che smettere, non tanto di lavorare, quanto di credere nel lavoro corrisponde a superare dolorose, laceranti, dilanianti crisi di astinenza, peggio che per una delusione d’amore, una separazione e un lutto messi assieme.
Quella che si va facendo strada sempre più, soprattutto dalla clientela individuale, è una domanda di aiuto a prendere le distanze dal ruolo. Livelli intermedi depressi, incapaci di accettare la disillusione e mortificati dalla squalifica
La via della desensibilizzazione può essere impegnativa. Richiede un lavoro anche intenso sugli impliciti valoriali e sulle convinzioni di intere generazioni. La fascia più critica è quella che va dai 35 ai 50 anni, sia per le ragioni di precarietà che riscontrano in questa “età di mezzo”, sia perché sono quelle che sono state programmate ad un modello di vita che non trova più riscontri oggettivi.
Il lavoro consiste in genere in più fasi: la prima è frequentemente quella di recupero o addirittura di cura degli effetti della crisi di ruolo o di identità - dall’ansia alla depressione, fase che può risultare anche abbastanza lunga. La seconda consiste nella vera e propria de-programmazione: una fase intensiva di durata medio-breve. Una terza è quella di sostegno all’installazione del nuovo modello: un periodo di interventi posizionati a una certa distanza fra loro, di carattere essenzialmente strategico, finalizzati a elaborare insieme tattiche per rispondere ai tentativi di omologazione e mobbing che l’ambiente facilmente agiterà nei confronti del lavoratore.
Quello che il cliente deve necessariamente realizzare è il principio che la salute, la sopravvivenza e la qualità della vita sono un diritto che viene prima di ogni dovere lavorativo e che questo particolare tipo di disobbedienza non è una forma di disonestà, ma casomai il contrario: l’affermazione del principio della salute della persona che stimola anche la salute organizzativa.
Dimensioni e bisogni
Le dimensioni delle aziende producono domande di coaching di tipo diverso fra di loro. La grande impresa ha due alternative. La prima consiste nel disinteressarsi dei dipendenti, nel metterli al margine, sostituirli e generare quindi domande di desensibilizzazione. Diversamente, vuoi per riparare ai danni prodotti con atteggiamenti simili a quello appena espresso, vuoi per affrontare il cambiamento di paradigma che questi tempi impongono, seguirà la necessità di motivare il proprio personale e in particolare i quadri intermedi. A seconda della serietà degli intenti un lavoro di questo tipo potrà essere costruttivo o palliativo.
Anche l’azienda di medio-grandi dimesioni potrà avere richieste di motivazione al cambiamento. Quanto più ci si spingerà verso le dimensioni medie e medio-piccole lo scenario con cui si dovrà fare i conti sarà quello della competitività. Il lavoro sarà quindi volto a realizzare dei team compatti, sinergici, affiatati e spesso aggressivi nei confronti del mercato e dei concorrenti. La competitività sarà un modello trasversale in quanto non è rivolto solo al mercato, ma anche ai colleghi. In queste realtà la negoziazione individuale potrà essere elevata e prevedere scarti di trattamento e autonomia anche estremi in funzione dei risultati e dei rischi. La precarietà del “posto” e l’elevato turnover che mettono a rischio le sicurezze dei lavoratori così come le capacità di programmazione e di durata dell’impresa possono costituire uno sprone a giocare sempre il tutto per tutto. Il coaching qui si farà particolarmente dinamico e agonistico.
Più ci si spinge verso il piccolo più i lavori sono dimensionati al breve e al ridotto, ad alta intensità, con obiettivi puntuali e verificabili nell’immediato.
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