Al servizio dell’impresa o della persona? La visione del Coach deve sempre essere di tipo sistemico escludendo sia il conflitto di interessi che l’approssimazione omologante
«Di chi è l’obiettivo dell’intervento di coaching?» Del cliente individuale pagante, di quello sponsorizzato dall’organizzazione o dell’impresa committente, dello stakeholder?
La risposta a questa domanda indirizza l’attività verso soluzioni di tipo diverso. I metodi stessi che ne conseguono sono differenti. Differente è il setting e, di conseguenza, il tipo di lavoro.
Insomma, ancora una volta, parlare di coaching non è mai un discorso scontato.
Provo ad affrontare quest’aspetto illustrando due scenari diversi. Il primo, discusso in questo articolo, descrive la differenza fra un tipo di lavoro finalizzato all’organizzazione, impresa o istituzione che sia, e quello finalizzato alla persona. Nel prossimo partiremo dall’approccio individuale per mostrare come possa condurre a nuove, impreviste ed interessanti aggregazioni.
Corporate Coaching
Non solo le origini, ma il termine stesso di coaching evoca in prima istanza un tipo di lavoro rivolto ad una squadra. Proprio com’è quella dell’allenatore, il coach sportivo, anche in questo caso si è portati a pensare ad una professione che si esprime nell’allenare una squadra lavorativa nella speranza di poter vincere il campionato o almeno di poter restare nella prima selezione, come pure, nel caso di esordienti o di gruppi in rilancio, di potere scalare la propria classifica per figurare sempre meglio di anno in anno.
Come nel caso della squadra sportiva, anche nel corporate coaching l’incarico viene pesato su una durata di riferimento di un anno, salvo improvvise ed eclatanti idosincrasie o incidenti di percorso imprevisti. Anche perché, per potere vedere i frutti del lavoro svolto, non bastano poche partite. Si fa un contratto con degli obiettivi messi bene nero su bianco e poi si parte. Nel corso dell’anno si procede con una verifica dell’andamento e, se si è tutti soddisfatti del lavoro svolto e delle relazioni intercorse, potrà avere un senso rinnovare il contratto di anno in anno per tutto il tempo a venire che si ritiene utile (in genere non lo si rinnova più di una o due volte, anche se niente e nessuno vieta di tornare a scritturare lo stesso coach più avanti, negli anni a venire).
Torneremo ad approfondire questo argomento. Per ora occorre solo evidenziare un aspetto di questo tipo di lavoro: gli interessi dei singoli in una squadra che deve vincere il campionato passano in secondo piano, in quanto il lavoro e la soddisfazione di ciascuno sono subordinati agli obiettivi del gruppo. Seppure questo è comprensibile in generale, può non esserlo nel particolare.
Personal Coaching
Il machiavellismo delle politiche organizzative si nutre delle ingiustizie che crea. La fortuna che può baciare un incompetente o i privilegi fondati su favoritismi immotivati trovano un contraltare in molti sfortunati che, pur avendo dato molto e magari anche generato molto, non ottengono soddisfazione e magari talora vengono addirittura accantonati o squalificati.
Se un’impresa può avere molte ragioni per “traghettare” il proprio gruppo da una condizione a un’altra, i diritti della persona non sono meno importanti. Storicamente, per una corrente di pensiero che privilegia le ragioni del gruppo e ancor più le ragioni di stato a quelle dell’individuo ne emerge sempre una che esalta il diritto del singolo al di sopra di quello delle masse. In fondo un’impresa è un soggetto altrettanto che una persona ed esistono persone ben più potenti di tanti gruppi. Esistono inoltre professioni che si identificano con una singola persona proprio come ci sono sport di squadra e sport individuali.
Sia negli sport individuali che in quelli di squadra esistono coach (a volte interi staff) che lavorano per il singolo atleta (il più delle volte in condivisione non di rado dialettica e talora in competizione). Perché stupirsi che avvenga altrettanto nella consulenza professionale?
Qualcuno, anche fra quelli che fanno questo lavoro, discrimina fra corporate coaching quando è rivolto alle professionalità e personal coaching quando lavora sul potenziale umano (non-professionale). Non è così.
Il coach prende in considerazione sistemi diversi e, pur attrezzandosi diversamente a seconda del setting, tratta entrambi con pari dignità rispettando i valori e le regole valide per quel sistema.
Può anche avviare due lavori combinati concomitanti (uno di corporate e anche più di uno personali), ben sapendo che in quel caso sta cominciando a muoversi in un terreno minato.
Quello che non deve mai verificarsi, infatti, è la situazione di conflitto di interessi. Non si può essere servi di due padroni e cavarsela senza giochi sporchi, anche se lavorare per una famiglia il più delle volte comporta lavori individuali diversi nei confronti dei singoli componenti che non porteranno problemi a meno che non vi siano membri che cerchino di sfruttare questa situazione. Se anche in quella “famiglia” ci fossero conflitti fra i membri è sufficiente che questi vengano esclusi da quel contratto.
D’altro canto il coach dovrà evitare, per esorcizzare il rischio di conflitto, di pontificare, mascherare le contraddizioni e i contrasti in nome di un “buonismo” ecumenico, di un approssimativo “vogliamoci tutti bene” che opera come un devastante rullo compressore, un proclama di servilismo pusillanime.
Non potrà fare autogol nei confronti della committenza aziendale, ma neppure tradire la fiducia del professionista. Se anche accadesse uno solo dei due incidenti, esso provocherebbe automaticamente anche l’altro.
Una considerazione finale per porre l’accento sui limiti di entrambe le situazioni. Se il corporate coaching troppo spesso comprime i bisogni soggettivi, il personal coaching non dà sufficiente respiro e apertura alla relazione a due. Per questo occorre valutare una terza dimensione. Quella del gruppo.
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