Capita che il potere del cosidetto management sia puramente illusorio, fondato com’è su un meccanismo di seduzione e prigionia apparentemente senza vie d’uscita.
Un legame a doppia mandata
Il bambino voleva restare sveglio per guardare la televisione o per giocare. Più in generale, non voleva essere escluso dai magici eventi che vivevano i suoi genitori dopo che lui non era più cosciente. La coppia voleva riprendere la propria intimità e magari farci scappare un po’ di sesso. La comunicazione più semplice sarebbe stata: “Vai a dormire” senza nessun’altra spiegazione che non fosse la regola familiare. Probabilmente ci sarebbero potute essere diverse alternative, compresa l’eventuale spiegazione che i genitori vogliono farsi i fatti loro. I modi benpensanti della coppia partoriscono invece un “Vai a letto perché sei stanco”. A nulla serve la protesta del bambino “Non sono stanco”. Inflessibile il genitore aggiunge “Sappiamo noi quello che è bene per te”.
Gregory Bateson aveva battezzato “Doppio Legame” (Double Bind) questo tipo di messaggi che mettono il destinatario in una posizione di ambiguità penalizzante, imprigionante, una vera e propria crisi razionale della definizione e della percezione alla realtà. Un ottimo esempio è costituito dall’imperativo: “Sii spontaneo!”. Non ha senso essere spontanei dietro comando, eppure la frase sortisce sempre un qualche effetto grazie al fatto di riuscire a passare per scontata, senza, cioè, venire messa in discussione. Lo stesso accade nei rapporti familiari: il bambino non può mettere in discussione il fatto che la madre sa “quel che è meglio per lui”, “quello che vuole veramente”, quello che ha in mente “veramente”. Non può permettersi di dire “non è vero, tu non puoi usarmi, annullare il mio diritto ad esprimermi liberamente... non puoi mistificare i miei sentimenti e obbligarmi a credere alle tue bugie opportunistiche”. Non può farlo perché non ne è in grado: non ha gli strumenti per esprimerlo, non ha l’autonomia e il coraggio necessari per imporsi come soggetto di fronte al genitore. Non può permettersi di offenderla: dipende ancora in tutto e per tutto da quel legame. Non potrà mai, soprattutto, negare l’affermazione dell’altro di agire “per il suo bene”, ovverosia non potrà mai negare l’amore primario della madre nei suoi confronti.
A questo punto non gli rimangono che due strade da percorrere: la prima è quella di accettare e ingoiarsi il disappunto trasformandolo in un sentimento spurio, misto di mortificazione, rabbia, senso di colpa e di ingiustizia; la seconda comunicare attraverso modalità indirette e contorte, come comportamenti nevrotici o psicotici, espressioni attraverso allegorie, metafore, storie di altri (come l’esempio ricorrente in molti film di colui il quale per vergogna riferisce di qualcosa che è avvenuto a un amico per non parlare di se stesso) e, ancor più frequentemente, la malattia.
La psicoterapeuta Mara Selvini Palazzoli spiegava il meccanismo patogeno dell’anoressia e della schizofrenia contenuto nei giochi sporchi in famiglia con un episodio che la vedeva coinvolta mentre si recava a prendere il metro. Aveva acquistato un pacchetto di sigarette di contrabbando con un biglietto da cinquantamila lire senza ricevere il resto. Decisamente arrabbiata e indignata si rivolse ad un vigile che le spiegò che era meglio se faceva finta di non avere sentito, altrimenti avrebbe dovuto procedere contro di lei per ricettazione. Il suo ritorno a casa fu talmente dominato da un sentimento di rabbia, mortificazione, presa in giro e soprattutto disistima di sé e vergogna che per molti giorni non riuscì a togliersi quel pensiero dalla testa, senza riuscire peraltro a parlarne con nessuno. Solo quando trovò la forza, il coraggio e le parole giuste per confessare l’evento poté cominciare a sentirsi sollevata prendendo lentamente le distanze dalla partecipazione intima ai fatti.
Seduzione e vergogna in azienda
Il perché di quest’incursione nel territorio della patologia è presto detto: nelle aziende il doppio legame è un meccanismo usato più frequentemente di quanto non si pensi. Strettamente correlato al potere, ha molte più parentele con le dinamiche familiari di quanto si pensi: in primo luogo per il bisogno di essere al centro dei sentimenti dei capi e quindi per l’ambizione di essere il preferito, il figlio prediletto.
Una situazione simile si era verificata durante un lungo percorso di coaching. L’azienda aveva subito una ristrutturazione importante, passando dalla dimensione di piccola impresa ad essere acquisiti da una grande corporate. Il management che governava l’impresa quando era ancora di piccole dimensioni era costituito da giovani compagni di laurea. Il proprietario dell’azienda aveva sedotto quel gruppetto di giovani convincendoli di avere loro delegato tutto il potere decisionale, in quanto li reputava intelligenti e capaci anche nel ruolo di manager. Li nominò soci, amministratori delegati, presidenti, direttori, a dispetto delle piccole dimensioni del personale complessivo, senza cambiare di molto il loro status concreto, continuando, anzi, a far loro vestire anche gli abiti operativi.
Nel retroscena, intanto, preparava la vendita che, quando si realizzò, comprese anche il trasferimento del personale con le competenza specifiche. I nuovi proprietari non cambiarono nulla delle loro definizioni, mentre questi si trovarono ad avere diversi capi sopra la testa. La principale difficoltà era quella di fare riconoscere al gruppo dei giovani che dovevano sottostare a un management che non erano loro. A parole lo ammettevano, mentre nei fatti facevano di tutto per smentire le decisioni, facendo finta di non sentire o non dando importanza alle scelte della nuova direzione.
Quelle persone servivano, ma non erano così indispensabili e il disagio che si veniva creando in seguito a questa situazione era tale che tutto propendeva per escluderli e ricondurli ad una mera operatività difficile da accettare e che comunque presto li avrebbe espulsi.
Ripercorrere la storia aziendale è spesso pretesto per “Amarcord” penosi, nostalgici e inutili. In alcuni casi è invece indispensabile per andare a riesumare memorie annullate, negate o rimosse. Così, quando si trovarono a rievocare il difficile rapporto con il “padre” seduttore che li aveva usati e traditi, toccò loro di vivere un conflitto doloroso e impossibile da esprimere. Dovettero ammettere di essere stati ingenui a fidarsi di quella persona, ma per farlo violentarono i loro sentimenti. Era vero che non avrebbero dovuto cascarci, perché non sussisteva nessuna condizione concreta che giustificasse il potere decisionale e la posizione che erano stati convinti di occupare, ma nello stesso tempo quel padrone era il loro modello e il loro mito. Aveva pur sempre avuto espressioni di approvazione, stima e addirittura affetto nei loro confronti ed era veramente duro ammettere che li aveva presi in giro e che loro ci erano caduti per civetteria, vanità o più semplicemente bisogno di stima e di apprezzamento; per quella sensazione di essere importanti e il senso di partecipare al Grande Gioco che per molti costituisce la ragione prima del coinvolgimento organizzativo e lavorativo.
Quando riuscirono a ricostruire gli eventi, letteralmente esplose un mondo compresso di emozioni contrastanti da troppo negate e represse. Si manifestarono i conflitti mascherati o nascosti, nello stupore generale di scoprire negli altri un’immagine inedita di sé e dell’azienda.
Ci volle del tempo perché, come da una vecchia piaga infetta, tutto questo potesse essere spurgato, ma fin da subito emerse liberazione e sollievo della ritirata da un ruolo divenuto insostenibile.
Poi fu il tempo della cura, di un progressivo riordino dei pezzi sparpagliati, un sano spostamento degli investimenti e la riconquista di un tempo di lavoro sereno. Infine fu l’accettazione senza conflitti dell’organizzazione reale pura e semplice, il riconoscimento delle autorità altrui come un sollevamento del peso di responsabilità e la ricostruzione del proprio ruolo.
Per alcuni si trattò di un’uscita felice, per altri di un sano ridimensionamento, per altri ancora dell’inizio di un nuovo percorso in una nuova organizzazione. Una situazione meno fantastica e meno straordinaria, ma finalmente vera, reale, schietta e onesta.
L’empowerment è spesso anche e soprattutto questo (e il coach onesto non mente in proposito): disillusione, liberazione e ridimensionamento. Non le “stelle” dell’immaginario, ma i “campi base” della meritata conquista.
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