Presto scopriremo che anche il Regno dei Cieli, dopo il Governo, la Sanità, i Beni Culturali, la Scuola, la Famiglia, la roba da lavare e quella del frigorifero, sarà fatto funzionare come un'azienda di mercato. Va posta l'enfasi su quel "di mercato", perché troppo spesso i politici hanno generalizzato in merito.
Un tempo si dibatteva se fosse più o meno giusto il governo dei tecnici, gli specialisti di settore, o se invece dovessero rimanere i politici - in fondo per la loro specializzazione in "decisioni" - a fare scelte in merito alla salute, alla scuola e così via. Poi è cominciato il battibecco se fosse o meno giusto gestire lo stato come un'azienda. E qui ci si è resi conto di quanto fosse approssimativo l'approccio dei fautori come dei detrattori, implicitamente convinti che le aziende fossero tutte uguali.
Fra le Ferrovie, Telecom, FIAT, Mediaset, Carrefour, Valeo, Google Italia e la Ditta Stampi Cerutti, l'idea di come si gestisce la società è nella pratica tanto diversa quanto il rito religioso fra buddisti, ebrei e indios animisti.
L'impreparazione e la mistificazione politica è però solo metà del guaio che ci affligge. Vedere i primari ospedalieri o i presidi scolastici scimmiottare i manager pensando che questi non imbroglino i budget di fronte a dei gruppi professionali abituati a consumati compromessi istituzionali per il quieto vivere, fa preoccupare quanti possono immaginare che questo si traduca in un raddoppio dei costi per attività e in un proporzionale decadimento della qualità del servizio.
Eppure la mistificazione che le istituzioni debbano funzionare come un'azienda con l'implicito che le aziende funzionino tutte nello stesso modo sta avendo un contraccolpo proprio nel mondo imprenditoriale, soprattutto nelle grandi imprese, già impressionate dalla concorrenza della liberalizzazione dei mercati e della cosiddetta globalizzazione. All'invasione del modello cinese e alla prossima irruzione delle imprese dell'est (tutti "monstrum" generati dalla speculazione e dall'ingordigia occidentale) la risposta non dovrebbe essere di mercato in senso stretto, ma soprattutto macroeconomica, politica e prima ancora etica e culturale, e quindi non frammentata nelle soluzioni delle tante imprese, ma coordinata da un'Europa che invece con l'allargamento e da quando c'è l'Euro sembra avere subito una crisi di autorevolezza e di identità.
Il nodo di tutto questo sta nella parola magica "Cultura", con la quale non s'intendono tanto le "cose" da privatizzare di cui chiacchierano Sgarbi o Urbani, ma piuttosto la dimensione antropologica più profonda e universale del nostro essere umani. Cultura sono i valori condivisi da un gruppo sociale e dall'insieme superiore che li accomuna, a partire da come si sta insieme e si trasmettono i significati impliciti, quelli spesso non discutibili, alle generazioni future.
L'estinzione della cultura
Rudolph Steiner è stato il ricercatore spirituale che tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 ha battezzato Antroposofia la "scienza e filosofia dello spirito" che, si potrebbe dire per la prima volta, si è tradotta in teorie e tecniche applicate a molteplici branche del sapere, dalla medicina alla pedagogia, dall'architettura, all'agricoltura, dall'arte alla storia e all'economia. A proposito di quest'ultima, persino un articolo sull'ortodosso Sole 24 Ore metteva in evidenza come, delle tante teorie macroeconomiche, proprio quella antroposofica sia l'unica ad avere retto alla prova del tempo.
Ebbene, proprio Steiner nel primo decennio del '900, in periodo quindi non sospetto, preconizzava sulla base di analisi decisamente poco ortodosse, che gli anni a venire sarebbero stati dominati dal modello spirituale statunitense e che questo avrebbe apportato rivolgimenti nella tecnologia e nel benessere, ma che questo sarebbe avvenuto a scapito del patrimonio culturale (nel senso spirituale e antropologico che dicevamo) dell'umanità. Un genere così indebolito nel profondo della struttura costitutiva sarebbe inevitabilmente divenuto preda di morbi nuovi e poco comprensibili: la mancanza d'identificazione culturale e quindi di chiarezza sui valori sarebbe arrivata a confondere le idee al corrispettivo fisiologico, ovverosia al sistema immunitario.
Prima, però, di allargare troppo il campo del nostro obiettivo, ritorniamo in azienda dove ci si potrebbe domandare "che ci si può fare se tutto il mondo (quello occidentale) sta abbandonando i valori culturali? come si potrebbe mai evitare che non ne vengano coinvolte anche le imprese?".
Si stanno dando troppe cose per scontate, mentre ci si rassegna come dei lemmings in processione verso la scarpata: anche se qualcuno pensa di arricchirsi sfruttando la situazione, non si rende conto che il destino della specie presto o tardi coinvolgerà anche speculatori e opportunisti. Allora, non vale la pena rendersi conto che questa situazione apparentemente ineluttabile non ha più di dieci anni ed è quindi reversibile solo a volerlo tutti?
Un letto di procuste per le grandi imprese
Una quindicina di anni fa si è pensato che si sarebbe dovuto far fronte al debito pubblico vendendo tutte le imprese statali che non si avevano attributi sufficienti per far rendere come si sarebbe potuto e la confindustria ha salutato la cosa come una liberazione, salvo più tardi essere scontenta perché il mercato è rimasto in mano al pubblico (salvo quelle nicchie dove erano possibili speculazioni pagate dal contribuente e dal debito pubblico). Chissà come mai non abbiamo assistito ad una corsa alla concorrenza e alla competizione, ad esempio dell'azienda elettrica o dei trasporti pubblici, da parte degli industriali ultra-liberisti, mentre continuiamo ad assistere al loro pianto greco sui costi di settori che ormai sono liberi e disponibili alla concorrenza?
Non assisteremo mai a un mea culpa degli attori di un tempo che per recuperare soldi o per speculare hanno svenduto i gioielli di famiglia dello Stato. Anzi il fenomeno si va allargando oltre i confini del pubblico.
È ora, infatti, volta delle grandi imprese private di seguire la logica del ridimensionamento, uno svuotamento cominciato proprio dal management intermedio che ha poi seguitato facendo scomparire o quasi tutte le funzioni di servizio e di collegamento. Eppure, se la cultura del gruppo ha una sede è proprio nel sistema connettivo costituito dalle persone, dai livelli di collegamento intermedi e dalle funzioni politiche e di servizio. Una volta esportate queste aree le grandi imprese (e molte medie con esse) si troveranno a fare i conti con una cultura esterna al gruppo. Il rapporto fra indigeno dominante e dominato si invertirebbe e il servo annichilirebbe un padrone indebolito e allucinato come nel bel film di Losey, Il Servo.
In Italia, pur di non affrontare le fatiche e i conflitti di regalie di imprese soffocate da protettorati politici, padronali, sindacali, da selve di microlobbies, parentele e amicizie, per ottimizzare aziende che avevano il problema di elefantiasi ingolfate da quadri dirigenti - con i loro peones affiliati - incapaci, esperti solo in mafie e poltrone, si è preferito tagliare la testa al toro e buttare via il bambino con l'acqua sporca.
In questo modo, purtroppo, non si potrà più ricostruire niente. Dopo che si è abbattuta la cultura di un gruppo o di un'impresa si resta orfani a lungo. I tempi per rifondarla sono il più delle volte troppo lunghi e ricominciare da zero per un'impresa consolidata è altrettanto impossibile che per un miliardario rassegnarsi a ricominciare dalla gavetta (ammesso che lui l'abbia mai fatta.
Eppure nelle rappresentazioni di molti top management c'è quest'idea mutuata da prezzolati guru che le imprese di domani saranno solo più il loro top management e che tutto il resto verrà dato all'esterno. Con non-imprese di questo tipo scomparirà presto la cultura imprenditoriale e con essa il backbone del sistema economico del paese.
Quale sarà il disegno che assumeranno le grandi imprese implicito nel loro attuale processo di disarticolazione? Un po' come in certi film di fantascienza, ci sarà un cervello immerso in un liquido fisiologico che emanerà i comandi a fornitori di prestazioni, impresari che risicano sui margini dei dipendenti, facendo cartello e speculando sui fisiologici limiti del controllo del cervello.
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