07 ottobre 2005

Oltre la formazione apparente dieci anni dopo

A volte una domanda vale un intero trattato se solo colui a cui viene posta ha voglia di soffermarsi a riflettere.
Sono passati vent'anni dalla pubblicazione della raccolta di saggi a cura di Daniele Boldizzoni a proposito della formazione apparente, tutto fumo e niente arrosto.
La definizione non era poi neppure sua, l'aveva presa in prestito da Bruno Maggi che denunciava il fenomeno ben dieci anni prima, ovvero ormai trent'anni fa.
Oggi alla formazione potremmo affiancare altri servizi, come ad esempio "la consulenza apparente" o "l'informatizzazione apparente"... Fate un po' voi.
Potremmo domandarci se è un problema di offerta o di domanda. Potremmo pensare all'e-learning o ai mille neologismi dei giovani azzimati consulenti anglofoni...
Insomma pensiamo a quello che vogliamo, ma pensiamoci almeno per capire in che mondo - e, nello specifico, in che mondo del lavoro - viviamo.
La domanda, ovviamente, è questa:
"Esiste ancora - di più o di meno di trent'anni fa - la formazione apparente?"
(...e "l'impresa apparente"?...)
cfr.: Maggi B. (1974) La formazione apparente: alcune ipotesi di ricerca. In: “studi organizzativi”, 1, 1974

cfr.: Boldizzoni D., Oltre la formazione apparente, Milano, Il sole24ore, 1984

[Se volete intervenire in proposito o azzardare delle risposte usate lo spazio dei commenti qua sotto]

Svezzamento e rinforzo

Se nel Personal Coaching si hanno sempre più spesso domande di recupero della propria indipendenza e quindi di desensibilizzazione da un certo modello manageriale tardo-yuppie con cui ci si è trovati a crescere e che ancora viene - il più delle volte incoerentemente - propinato, nel Corporate Coaching le cose appaiono diverse.
In realtà si tratta poi spesso dello stesso problema visto dall'altra parte dello specchio.
I bisogni dei gruppi aziendali in questo lungo guado epocale possono essere rappresentati in due grandi categorie: quella dello svezzamento e quella del rinforzo.

La richiesta di svezzamento la si ritrova fra le imprese startup createsi a seguito di due fenomeni: la nascita di nuovi comparti, spesso legati alle nuove tecnologie o più semplicemente a nuove forme di business, e l'espansione non di rado selvaggia dei fornitori di outsourcing a seguito dello svuotamento strutturale delle grandi imprese.
Si svezzano frequentemente manager - se così si può ancora dire - giovani, con un bagaglio formativo scolastico ma poca esperienza di conduzione aziendale, di visione d'impresa e con poca creatività e flessibilità nel problem solving. Si tratta di accompagnarne la crescita e spesso di incoraggiare la sicurezza nel proprio operato. Una prassi maieutica necessaria, anche se raramente può essere dichiarata in questo modo.
Il coaching si mischia con la formazione in quanto devono essere frequentemente trasmessi anche rudimenti di professionalità.
Soprattutto va insegnato un metodo di lavoro, un imparare ad imparare. Non di rado al coach tocca anche di consigliare certi corsi di formazione specialistici che altrimenti non verrebbero evidenziati dall'emergenza operativa.
Questo tipo di bisogno si scontra però con il modello di business dell'impresa, frequentemente refrattario a investire nel personale perché non vi si ravvisa un ritorno diretto di interessi. Gli imprenditori vorrebbero la botte piena e la moglie ubriaca: girare su dipendenti spesso sotto pagati il carico della loro formazione, aspettarsi che occupino tutto il loro tempo lavorativo nell'esecuzione di compiti e nell'assunzione di responsabilità portando dei risultati anche se si sono prese persone che non hanno le basi per poterlo fare, basi che spesso richiedono una capacità critica, anch'essa poco apprezzata dagli imprenditori.
Spesso il coach per poter soddisfare questo tipo di necessità si trova costretto a compromessi poco professionali nella definizione del contratto e nella descrizione del tipo di lavoro. La conseguenza è frequentemente un processo limitato e frustrante.
D'altro canto, se si frammenta il lavoro in più step definiti da obiettivi limitati e verificabili, la percezione dei risultati può essere rassicurante tanto per i fruitori che per i committenti.
Il prezzo da pagare è una certa insoddisfazione nel non vedere realizzarsi i miracoli di un management brillante tutto-subito a costi zero.
Con il tempo e con la maturità derivante dal realismo disilluso degli uni e degli altri si potrà anche arrivare ad un rapporto fiduciario graduale e fondante.

La domanda di rinforzo, invece, si presenta più frequentemente in imprese già avviate e consolidate, spesso addirittura più che mature, che per combattere il rischio di obsolescenza hanno introdotto processi organizzativi innovativi.
In questo tipo di aziende non è rado che convivano i modelli burocratici dell'impresa tayloristico-amministrativa e i precetti di flessibilità competitiva tipici delle società di mercato. Chi si trova al centro della contraddizione sono spesso i quadri e i dipendenti che cui tocca, volenti o nolenti, di assumere responsabilità che un tempo erano poste in dirigenti soppressi dalle ristrutturazioni.
La frustrazione di professionisti nati in un altro modello d'impresa, cancellato da pochi anni che sembrano già un'eternità, che ora si trovano a farsi carico di responsabilità pretese e non riconosciute, si accompagna spesso a un senso di inadeguatezza.
Non si sa se si è all'altezza del compito gravido di rischi. "Che cosa vogliono da me?", "Che cos'è questo strano tipo di azienda che questi vogliono realizzare?", "Come faccio a pensare un modello organizzativo che neppure i capi sanno spiegarmi, rigirando tutto sulla pretesa che ad essere flessibile e cretivo sia io?" sono alcune delle domande che pesano sulle figure che manifestano questo bisogno.
L'impresa lo identifica in necessità di "adeguarsi al cambiamento", spesso senza sapere neppure bene che cosa si voglia ottenere e che cosa voglia dire.
L'impressione è che si debbano fare le cose in grande, quando in realtà è spesso sufficiente dimenticare i modelli vecchi, quelli "fondamentalisti", per imparare una leggerezza (calvin-kunderiana) e una provvisorietà dello stile di lavoro che il professionista lavorativamente nato fino a una decina d'anni fa fatica ad accettare.
In realtà le capacità non mancano a patto di sconfiggere la resistenza, la paura e il senso di inadeguatezza.
Il coaching di rinforzo consiste il più delle volte nel far cambiare lenti ai destinatari degli interventi. Portarli a guardare all'impresa e al proprio lavoro in modo diverso, disincantato e pratico, con una scatola di attrezzi ridotta all'essenziale, ma efficace un po' per tutto, fuori dalle grandi appartenenze a famiglie aziendali e identità professionali.
Questo non con l'indottrinamento di evangelizzazioni all'americana, prediche d'importazione o precetti sparati supinamente da proiezioni di Powerpoint, ma piuttosto con l'action learning, la ricerca-intervento, la supervisione delle esperienze, accompagnate da frequenti feedback di fiducia che nascono dal far riconoscere il successo del proprio operato anche se è diverso da quello che avrebbero dovuto ottenere ieri, nell'altro tipo di organizzazione.
L'accettazione della crescita è anche assunzione di invecchiamento laddove gli effetti sono superiori al tempo intercorso, come se il mondo in cui si era nati apparisse in pochissi anni più vecchio di cent'anni.
Tuttavia quando, come dice De Gregori "si accetterà questo fatto - che le cose del passato non ritorneranno più - come una vittoria" nascerà un senso di liberazione, il sollievo da un peso inutile e pregiudiziale. A questo punto si tratterà di convivere con le contraddizioni di un'azienda che magari paga normalmente il coaching dei propri dipendenti, ma non potrà mai affermare di avere richiesto certi risultati.
Anche qui si vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca: flessibilità nell'osservanza della norma, soddisfazione dai carichi di lavoro e di responsabilità e non dai ritorni economici e professionali derivanti, proceduralità creativa e così via. Questo aspetto, tuttavia, si supera facilmente: basta, ad esempio, non usare termini forti e compromettenti, ma piuttosto delle sfumature.
La fiducia in se stessi dei professionisti genera tranquillità nell'azienda e il sano realismo potrà sposarsi più facilmente con l'innovazione.

Detto questo non stupisce che in qualcuno dei coach possa restare un senso di incompiutezza e di insoddisfazione: "Ma quando mai si arriverà al fondo del lavoro?", "Esiste la possibilità di trattare il mondo delle cause?"
Probabilmente no, proprio perché un gioco non ha delle cause e spesso va cambiato, non perché non andava bene, ma solo perché ci va un gioco nuovo.
Tuttavia il vero gioco nuovo, quello che farebbe giocare tutti con un po' di soddisfazione in più sarebbe il coaching della domanda, che invece per definizione è presuntuosamente indiscutibile. Chi chiede l'intervento "sa quello che vuole e la cosa non è discutibile".
Un po' alla volta, sia che si operi di svezzamento che di rinforzo, occorre arrivare a rivolgersi ai committenti per discutere con loro sugli effetti del lavoro e costringerli a riformulare la domanda iniziale.
In questo modo si potrà insegnare a chi richiede a scoprire quello che veramente serve e quello che si avrebbe fatto meglio a chiedere.
I committenti devono imparare a desiderare meglio, essendo in questo come dei bambini che spesso spenderebbero subito tutto quello che hanno in tasca per comprare il gioco che passa più frequentemente in televisione o quello che ha il bambino di fianco, mentre se li porti a chiedere a se stessi a che cosa vorrebbero veramente in questo momento giocare, invece di chiedersi che gioco vorrebbero comprare, come vorrebbero veramente occupare il loro tempo e non quale desiderio vorrebbero sedare, allora scoprirebbero che è tutto meno caro e meno frustrante, più semplice e più felice.

29 settembre 2005

La Comunità è un'isola (di un arcipelago)

Chi fino a ieri parlava di e-learning viene sempre più spesso colto oggi a parlare di Communities of practice.
Saremmo portati a pensare che si tratti dell'ennesima questione di mode terminologiche, se non fosse un po' troppo sbrigativo.
Le comunità professionali esistono da ben prima che ci fosse l'e-learning e non hanno neppure subìto un legame con informatica e Internet tale da collegarle al fenomeno della new economy.
In realtà si può fare comunità di pratiche anche senza accendere nessuna macchina, anche solo trovandosi al caffé.
In pratica però i tempi hanno imposto l'uso di piattaforme e di dispositivi elettronici i più disparati. Le comunità si innestano negli e-portal, si connettono con i cellulari, con gli SMS, non disdegnano gli MMS e il VoIP, oltre a frequentare ovviamente focus, chat e tutte le "diavolerie" neeo-tecnologiche.
(...)
Nelle comunità ciò che conta veramente è l’oggi: il domani è solo la direzione dell’oggi e il passato, la storia, nient’altro che ciò che abbiamo lasciato, il luogo da cui ci stiamo allontanando, quanto vi è di non più valido, di non più utile, se non per ciò che è già entrato a far parte dei nostri comportamenti. La storia del gruppo ha valore proprio in funzione di quello che il gruppo è oggi, del senso di appartenenza, della cultura che si sviluppa, dei valori che vengono trasmessi e soprattutto del peso che ha una frequentazione pluriennale assume nei confronti dei neofiti. Al di là di questo, il passato è inutile: una business community vive dell’oggi, della capacità di inventare nuovi traguardi, di cambiare linguaggi, di scoprire nuovi territori. Che cos’è, se non stupida burocrazia, la speranza di impadronirsi del sapere dei propri professionisti costringendoli a perdere il proprio tempo nel trasferire le proprie informazioni pregresse all’azienda? Si otterrebbe solo di demotivare i professionisti, che così non guarderebbero più al domani, non innoverebbero più e perderebbero ogni entusiasmo. Non serve certo conoscere le informazioni sul sapere dei venditori per passare il testimone a un altro rappresentante dal momento che quel cliente sta con voi solo grazie al rapporto che si è creato in seguito a un lungo e paziente lavoro del venditore, alle sue caratteristiche personali oltre che professionali, e ai tempi e ai luoghi che l’hanno visto nascere e crescere.
Nonostante queste osservazioni dovrebbero essere auto-evidenti, purtroppo la dura legge per la quale la madre dei cretini è sempre incinta deve mettere tutti in guardia, premunendosi con strumenti concettuali e strategici di fronte all’assalto dei normalizzatori, dei manager e delle società della grande omologazione data-centrica.
Nelle aziende oggi si sta combattendo una dura battaglia etica e culturale i cui esiti sono tutt’altro che scontati.
(...)
Sarà bene, quindi, che del knowledge o della community dei venditori si occupi un progetto apposito realizzato da persone che conoscono cultura, linguaggio ed esigenze di quella popolazione; che ne sappiano rispettare i valori e i diritti reali; che si muovano nel territorio concreto di quella comunità professionale; che bilancino gli investimenti ben conoscendo i risultati che si possono ottenere e per nessuna ragione superando i confini che ne tutelano la convenienza. Questo gruppo di coordinamento saprà bene che molto del lavoro sarà affidato ai fruitori stessi che assorbiranno buona parte dei costi dell’operazione e saranno doppiamente soddisfatti comprendendo che, proprio perché fatta da loro, la comunità è un oggetto e un progetto che appartiene loro e sarà sempre a loro disposizione.
La sostenibilità realizzativa è situata dunque nella mente locale, quella del gruppo di gestione dedicato e centrato sul cliente e quella dei destinatari, artefici e beneficiari di un’operazione che, se finirà bene, corrisponderà al vantaggio dell’organizzazione nel suo insieme, proprio in ragione dell’empowerment professionale di coloro che vi si impegnano in maniera attiva e non parassitaria.
Separare e governare, lasciando autonomia operativa e di organizzazione ai popoli governati è la lezione che i Grandi Imperi che hanno funzionato possono offrire alle grandi imprese di oggi, in bilico fra la delegittimazione, lo svuotamento delle direzioni e il decentramento della gestione, da un lato, e la rifondazione su criteri di “autogestione” dei propri collaboratori, dall’altro: imperi sconosciuti a se stessi o arcipelaghi di villaggi, uomini, donne e bambini con un interesse comune. La qualità della vita.
Estratto dell'articolo (7 pagine) appena pubblicato dalla Rivista Italiana di E-Learning (n.10 settembre-ottobre 2005).
Versione digitale (1,7 MB) cortesemente concessa dall'editore per la consultazione e di cui non è consentita la diffusione pubblica.

28 settembre 2005

NoWhere Memories

Spesso mi tocca trascurare gli appunti di Personal Coaching per mancanza di idee, assorbimento in altre attività o semplice stanchezza. Queste assenze possono dare l'idea che il diario sia stato chiuso.
Di fatto di diari ne ho aperti molti.
Alcuni sono stati effettivamente chiusi (kfore - Knowledge Convergence e NomadWare), mentre altri rimangono aperti, ma sono di fatto trascurati.
Uno di quelli a cui tengo di più è fra quelli a cui mi dedico più saltuariamente. Si chiama NoWhere Memories - Tracce sulla spiaggia dell'Anima e, come evoca il titolo, attiene a riflessioni più "interiori" o, se si preferisce, psicologiche.
Per una volta uso Personal Coaching per un advertising incrociato e spero di essere perdonato adducendone le ragioni essenzialmente sentimentali.

16 settembre 2005

Desensibilizzare è meglio che curare

Una regola da prendere sempre in considerazione, soprattutto nelle relazioni d'aiuto, è quella che spesso il problema consiste nella soluzione che è stata trovata a qualcosa che spesso un problema non è.
Ci si trova così ad affrontare problemi di natura relazionale, sessuale, lavorativa e così via senza considerare che è l'obiettivo che ci si dà a non essere corretto.

Viviamo in una società eretistica e ipertrofica. Soggetti a continue stimolazioni, viviamo ossessionati dal timore di non essere all'altezza o di non avere abbastanza. Ad esempio, indubbiamente la sessualità è una componente importante della vita, ma ne sentiamo il bisogno, più spesso vissuto come costante insoddisfazione, in funzione di una continua sollecitazione che non è una necessità autentica della nostra persona. Il più delle volte si tratta del frutto di continue sollecitazioni che ci provengono dalla strada, dalla televisione, dal costume delle persone che frequentiamo. Tutto questo perché mettere in discussione i luoghi comuni ci risulterebbe ancora più penoso che assecondarli.

La nostra vita è all'insegna di automatismi che ai nostri antenati erano pressoché sconosciuti. La vita è più semplice di come ci troviamo a viverla. Per vincere le frustrazioni del lavoro si finisce per assumersi maggiori responsabilità e per lavorare sempre di più. Eppure il lavoro ha dei costi che possono essere superiori alla retribuzione che ce ne deriva. Essere all'altezza del tenore sociale richiesto dal ruolo può essere talmente costoso che se ne sottraessimo il valore dallo stipendio scopriremmo di guadagnare meno dei nostri sottoposti. Lavorare di meno sarebbe la cura (sia per la salute che per i bilanci). Invece cerchiamo aiuto per poter vivere peggio. E il bello è che lo troviamo, anche. Psicoterapie interminabili, coaching esasperati, corsi di formazione artefatti, sessuologi ideologizzati ci aiutano a mantenere l'incubo delle nostre ossessioni.

Bisognerebbe sostituire la terapia delle nostre insoddisfazioni con una cura che ci salvi dalle assuefazioni "normali". La cura di cui la maggior parte di noi ha maggiormente bisogno è una terapia della de-sensibilizzazione. Imparare a "sentire di meno", a non reagire a qualsivoglia stimolo, a schermare i nostri sensi e la nostra coscienza dalle infinite contaminazioni dello stile di vita contemporaneo.
È difficile proporre un simile obiettivo a un cliente che si ritiene convinto della propria analisi e di una diagnosi così condivisa da quanti ha attorno. Eppure la mancanza di difese o l'uso improprio che il corpo (e la mente) di ognuno di noi ne fa sono il meccanismo che sta alla base delle patologie del secolo: virus, retro-virus e malattie auto-immunitarie.

Un modo per vivere meglio lo possiamo praticare tutti senza ricorrere a consulenti o terapisti: sottrarsi in maniera volontaria all'uso dei mezzi di sollecitazione automatica dei sensi e dei bisogni. È quasi come smettere di fumare, ma un po' più difficile, anche perché da nessuna parte si scrive: "l'auto uccide", "il televisore provoca l'alienazione", "il troppo lavoro danneggia gravemente te e chi ti sta intorno", "un certo amore crea dipendenza, non iniziare", come invece si trova su tutti i pacchetti di sigarette.

Paradossalmente è la "normalità" con cui vengono vissuti dal resto del mondo questi comportamenti che motiva la richiesta di aiuto.
D'altro canto si può a buona ragione affermare che molte delle patologie contemporanee - fisiche e psichiche - altro non sono che effetti dell'ipersensibilizzazione coattiva.
Invece di trattarli con delle cure che prendono sul serio il bisogno sarà bene smontare gli assunti, lavorare per scoprire i veri obiettivi della vita equilibrata per poi passare a studiare delle strategie e a mettere in pratica delle tattiche per desensibilizzarsi, per annullare l'automatismo dei desideri e per abbassare la soglia di reattività agli stimoli sensoriali e alle illusioni narcisistiche.

(da Cambiare.org

01 settembre 2005

Manager senza testimoni

Per massimizzare i profiti abbatendo i costi, le imprese - marcatamente quelle di grandi dimensioni - hanno trasformato la propria struttura in questo modo:
  1. Incentivando all'inverosimile i profitti di un top management sempre più ristretto con meccanismi di partecipazione esasperata agli utili aziendali (stock options)
  2. Delegando a fornitori esterni deregolamentati le attività della base (ridotta così ai minimi termini)
  3. Facendo scomparire tutto quello che stava in mezzo.

In mezzo vuol dire il livello manageriale intermedio, ma non solo.
La scomparsa del "mezzo" vuol dire anche quella dell'età di mezzo.
Assistiamo sempre più frequentemente all'ascesa di una generazione di giovani manager che, a fronte di responsabilità non da poco, vengono assunti o affittati in regime di precarietà sottopagata.
Questi neo-manager il più delle volte si trovano a camminare sul filo senza rete, senza cioé la protezione e il contributo che arriva dall'esperienza di quelle figure che sapevano che cosa vuol dire essere manager, quel che significa azienda e, nello specifico, quell'azienda.
Le sole risorse di cui dispongono sono un bagaglio formativo velleitario, scolastico oppure liofilizzato da qualche società di formazione usa e getta, quando addirittura inesistente.
Nessuna "formazione" teorica può supplire a quella che si genera nella socializzazione che trasmette la cultura professionale e d'impresa assieme a una deontologia sempre più spesso povera di fondamenti e motivazioni (imprese che praticano l'ideologia della predazione motivano lo sviluppo di generazioni di manager scaltriti nella pratica della predazione interna e del cannibalismo - après moi le deluge).

In compenso, i manager di mezzo che non sono andati in pensione anticipatamente per fare altro (lavoro o tempo libero) sono spesso accolti dalle medie imprese che hanno motivazioni di sostenibilità e di sopravvivenza e magari anche di successo.

Da tempo Peter Drucker ha previsto il superamento della grande impresa.
L'unico "mezzo" che rimane è la media impresa, presa fra Scilla e Cariddi del ricatto delle grandi corporate e delle possibilità di cartello che il mercato consente.
Accanto a forme di organizzazione innovative, in gran parte di là da venire probabilmente - eccezioni a parte - questa è una delle poche dimensioni dove esistano ancora degli spazi manageriali in cui sia ancora possibile il passaggio di testimone con la generazione di mezzo (peraltro già in via di estinzione).

L'impresa irresponsabile di Gallino

Si ricomincia.
Un anno nuovo carico di incertezze si profila costringendoci a trovare un modo per trasformare le incertezze in opportunità.
A portare avanti questa sfida erculea sono chiamati necessariamente quelli che occupano una posizione manageriale.
Nell'ultimo decennio, però, è profondamente cambiato il senso del ruolo di manager, soprattutto nelle grandi imprese.
È necessario più che mai farsi un'idea chiara dello scenario in cui si è chiamati ad opeerare.
Al di là di ottimismi o pessimismi, quello che potremmo chiamare il vate della trasformazione industriale che ancora all'inizio degli anni '80 descriveva quello che oggi abbiamo sotto gli occhi ha messo per iscritto le sue ultime riflessioni.
È un lavoro che tutti noi che abbiamo a che fare con le imprese di oggi non possiamo proprio ignorare.
Andatelo a comprare e leggetelo - costa anche poco. Ecco i dati:
Gallino L., L'impresa irresponsabile, Einaudi, Torino, 2005. Collana Gli struzzi. Pagine XX-271. Prezzo € 15,00.
(acquisti online: http://www.unilibro.it/find_buy/libro/einaudi/l_impresa_irresponsabile.asp?sku=12091607&idaff=0 - http://www.lafeltrinelli.it/istituzionale/catalogo/scheda_prodotto.aspx?i=2194289 - http://www.bol.it/libri/scheda/ea978880617537.html )
Alcune recensioni:
http://www.repubblica.it/2005/f/sezioni/spettacoli_e_cultura/libri17/libri17/libri17.html
http://www.zeusnews.it/index.php3?ar=stampa&cod=4287&numero=999
http://www.impresaprogetto.it/portal/page/categoryItem?contentId=43851
http://it.groups.yahoo.com/group/sociologiscalzi/message/28
http://www.benedettodellavedova.com/blog_archive/000628.html
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=TUTTIEDIT&TOPIC_TIPO=E&TOPIC_ID=43938
http://www.cosinrete.it/2005_08/cosinrete2542_07.htm
Articolo di Gallino sul tema:
http://www.larivistadelmanifesto.it/archivio/48/48A20040303.html

03 agosto 2005

Creativo o Creatore

Valutando i tratti di personalità e il potenziale del personale nelle aziende fra i termini che vengono usati c'è quello di "creativo".
Eppure un distinguo va posto fra personalità "creativa" e "creatrice".

Creativo è colui che trova soluzioni originali per far risaltare un prodotto o un lavoro. A predominare è il lato estetico e giocoso, la capacità di mettere in gioco la fantasia. Laddove un reparto o un dipartimento hanno la tendenza a farsi appesantire e ingrigire dalle abitudini e dalla burocraticità, l'apporto di figure creative può contribuire al rinnovamento. Gli stessi creativi sono poi ben noti nell'ambiente pubblicitario e in tutte le attività alla moda.

Tutt'altra storia quando si parla di "creatori". Questi sono personaggi condannati dal desiderio di fecondare qualsiasi cosa, donne, terreni, idee, aziende...
Nella teoria dei tipi psicologici jungiani corrispondono all'intuitivo, quello che, secondo l'analista svizzero, vede il futuro, avendo doti di insight e capacità di cogliere dritto all'essenza dei fatti e dei problemi. Quello anche che, sempre all'inseguimento del cambiamento, non ama fermarsi, passando, come la ben nota "pietra rotolante che non fa muschio", da un'innovazione all'altra, lasciando ad altri di far maturare e poi cogliere i frutti. Non si tratta necessariamente di geni, quanto di "imprenditori", proprio perché amano l'impresa ai suoi esordi. Se nei "creativi" è la fantasia a lavorare, i "creatori" lavorano con l'immaginazione, secondo una distinzione approfondita da E. A. Poe. Chi rappresenta magnificamente questa dote è J.L. Borges che nel racconto "Le rovine circolari" descrive un mago che per dar vita a un uomo lo genera da un proprio sogno, scoprendo presto che non basta fantasticarlo: bisogna generarne l'immagine pelo per pelo, poro per poro, odore per odore, cellula per cellula. L'immaginazione è il lavoro e la disciplina dell'immaginario, uno sforzo di concentrazione tenace e ficcante per gettare un ponte fertile sul futuro.
Il creatore ha anche diversi difetti: prima di tutto la sua visione lo porta a passare sopra la quotidianità e a non accettare compromessi; spesos è difficilmente comprensibile e le sue sfide sono rischiose. Forse il futuro gli darà ragione o forse no, comunque sia i frutti non verranno raccolti così presto.

Nonostante questo, proprio i tempi che stiamo vivendo avrebbero bisogno di creatori, eppure sono gli ultimi ad essere ricercati. Pochi - meglio se tanti, maledetti, sicuri e subito: altro che fecondazione. Le aziende non vogliono figli; a guadagnare sono vecchi stanchi che si circondano di giovani inesperti e obbedienti, oltre che sottopagati. La speculazione richiede furbi, forse creativi, ma mai creatori.

Non di rado li vediamo quandi migrare in attività no profit, magari in paesi "in via di sviluppo", come si diceva una volta. Che il futuro stia là, come lasciava presagire qualche anno fa anche Drucker?

21 giugno 2005

Affamato e pazzo

Per chi ne dubitasse, pur con tutte le spigolosità di un genio del business, Steve Jobs, fondatore e leader indiscusso di Apple si conferma ogni giorno che passa un uomo di grande statura. Del suo straordinario intervento sostenuto alla consegna delle lauree dell'università di Stanford ci colpisce l'esempio di una vita in cui i valori e le passioni personali non sono separate dal lavoro, in cui il cambio di vestiti nel passaggio da una parte all'altra non c'è e se ci fosse non si vede, dove non manca il coraggio di affermare che quando laurearsi serve per darsi un tono si buttano via i soldi, dove le scelte vanno affrontate fino in fondo, anche quando vieni avversato da tutti, anche quando sei messo ai margini o in mezzo a una strada.

A nulla serve introdurre le parole del guru quando questo si esprime così direttamente e chiaramente come potrete osservare nella cortese traduzione realizzata da sito Italia Mac.

http://www.italiamac.it/magazine/articoli/discorso-jobs-lauree/index.php

17 giugno 2005

Il fattore T

Potete trovare pubblicato su NetManager il seguente articolo:
Il fattore T: come fare del proprio tempo inutilizzato il nostro principale alleato

Nonostante si tenda a sostenere fino alla noia che la risorsa meno disponibile sul lavoro, e di conseguenza anche nella vita privata, sia il tempo, spesso non ci si rende conto fino a che punto questa sia una superstizione...

31 maggio 2005

Cambiando obiettivi

Fra le vittime dell'attuale rivolgimento manageriale spicca l'MBO.
Sì è vero che nessuno ha ancora smesso ufficialmente di lavorare sui budget a cavallo del nuovo anno, tuttavia è l'enfasi sulla pianificazione e sulla razionalità manageriale che sta venendo meno.
Il fatto è che da quando alla fine degli anni 50 Peter Drunker ha introdotto questa filosofia manageriale, sono poi stati gli economisti a trasformarla in una tecnica e ad estraniarla dai moventi fondamentali che erano sostanzialemente cognitivi e relazionali. Cognitivi perchè basati sul meccanismo di feedback volto ad amplificare la consapevolezza sulle scelte di direzione. Relazionali perchè il meccanismo su cui poggia è di tipo negoziale, da un lato, e consulenziale, dall'altro.
A definire gli obiettivi bisognerebbe essere sempre almeno in due e, nello stesso modo, non bisognerebbe mai pensare in termini di obiettivi aziendali, ma di obiettivi personali, perchè solo così la persona potrà assumersi la responsabilità su quanto decide.
Gli obiettivi di gruppo e aziendali sono casomai la composizione dei diversi livelli degli obiettivi personali.
È giusto dunque che la sfilata delle bugie di fine anno tenda a venire meno, nello stesso modo in cui nelle aziende degli anni a venire avrà sempre meno peso la razionalità meccanicistica e sempre più influiràil rapporto interpersonale e le relazioni di aiuto e counselling.

28 aprile 2005

Coinvolgere o Desensibilizzare

Coinvolgere o Desensibilizzare
A seconda delle dimensioni dell’azienda il coaching può essere motivante, competitivo o aggressivo in funzione di come il cambiamento economico condiziona il mercato e la cultura d’impresa. La vera novità è però rappresentata soprattutto dall’aiuto alla de-programmazione al lavoro e alla desensibilizzazione morale del lavoratore...

19 aprile 2005

Gli effetti della seduzione

Gli effetti della seduzione di Ennio Martignago
(pubblicato sul sito Netmanager.it)
"Sii spontaneo!". Gregory Bateson ha battezzato “Doppio Legame” (Double Bind) il tipo di messaggi che mettono il destinatario in una posizione di ambiguità penalizzante, imprigionante, una vera e propria crisi razionale della definizione e della percezione alla realtà, e nelle aziende il doppio legame è un meccanismo usato più frequentemente di quanto non si pensi
(...) Quando riuscirono a ricostruire gli eventi, letteralmente esplose un mondo compresso di emozioni contrastanti da troppo negate e represse. Si manifestarono i conflitti mascherati o nascosti, nello stupore generale di scoprire negli altri un’immagine inedita di sé e dell’azienda.
Ci volle del tempo perché, come da una vecchia piaga infetta, tutto questo potesse essere spurgato, ma fin da subito emerse liberazione e sollievo della ritirata da un ruolo divenuto insostenibile.
Poi fu il tempo della cura, di un progressivo riordino dei pezzi sparpagliati, un sano spostamento degli investimenti e la riconquista di un tempo di lavoro sereno. Infine fu l’accettazione senza conflitti dell’organizzazione reale pura e semplice, il riconoscimento delle autorità altrui come un sollevamento del peso di responsabilità e la ricostruzione del proprio ruolo.
Per alcuni si trattò di un’uscita felice, per altri di un sano ridimensionamento, per altri ancora dell’inizio di un nuovo percorso in una nuova organizzazione. Una situazione meno fantastica e meno straordinaria, ma finalmente vera, reale, schietta e onesta.
L’empowerment è spesso anche e soprattutto questo (e il coach onesto non mente in proposito): disillusione, liberazione e ridimensionamento. Non le “stelle” dell’immaginario, ma i “campi base” della meritata conquista.

Coaching e Formazione

Coaching e Formazione
(Articolo disponibile su Netmanager.it)
Una parte del mondo della formazione può uscire dall’ambiguità di questo settore in crisi teoretica definendo diversamente il proprio ambito professionale
Insomma, è ora che l’etichetta “formazione” venga applicata ai soli corsi (in aula e on line) e invece si chiamino supervisione, consulenza e coaching (dentro e oltre l’aula, come pure nei gruppi on line) gli interventi volti a favorire il miglioramento del singolo, del gruppo o della cultura d’impresa(...)

09 aprile 2005

"è possibile fare coaching a distanza?"

...è la domanda che si pone Umberto Santucci in un interessante articolo per WBT.it.
Dopo un'interessante disamina del rapporto formazione/consulenza, l'autore giunge alla conclusine che "si tratta di rivedere in modo innovativo tutto ciò che sappiamo su formazione, consulenza, gestione del rapporto a distanza e delle interazioni uno a uno, uno a molti e molti a uno".
Credo che su questo punto ci sia una sicura convergenza. Il problema, oggi come un tempo, sia il rischio che, a fronte di una revisione generale, si rischi di stare creando un moltiplicarsi di iniziative ed etichette proprietarie in assenza di un vero sforzo di incontrarsi in un terreno comune che difficilmente può ridursi al binomio consulenza/formazione.

11 marzo 2005

Coinvolgere e desensibilizzare

Due tendenze opposte si vanno facendo strada nella domanda di coaching.
La prima si riscontra soprattutto fra le medie e le medio-piccole imprese e si traduce in "richiesta di coinvolgimento". Si ha a che fare con gruppi costituiti per lo più da giovani con scarsa esperienza manageriale che mancano di senso di intraprendenza organizzativa e responsabilizzazione al cambiamento e al business. Raramente queste imprese possono contare su manager di mezza età e quando ci siano sono poco disponibili a fare da testimoni alle giovani generazioni. In genere a promuoverla è il vertice aziendale stesso, non di rado ridotto all'osso e obbligato a farsi carico di impellenze organizzative che si vorrebbero svolte da figure intermedie.
La seconda è ancora più interessante perché la si riscontra sempre più frequentemente e principalmente nelle organizzazioni di grandi e medio-grandi dimensioni. A esprimerla sono soprattutto i manager intermedi stessi e più in generale i colletti bianchi. Si traduce in un bisogno di desensibilizzazione. Frustrati da una perdita di valore del proprio ruolo e da una squalifica, sia in termini di soddisfazioni personali che di incidenza nelle politiche aziendali, pur cercando di tutelare la propria posizione di lavoro, si rendono conto che sta diventando per loro vitale smettere di nutrire aspettative dal lavoro e dalla responsabilità aziendale e chiedono pertanto di riuscire a disinvestire, a vivere la vita lavorativa in un altro modo - più disimpegnato e situazionista. Chiedono soprattutto un aiuto per organizzarsi il quotidiano spostando gli investimenti nel personale e nella vita extra-lavorativa, magari anche negli spazi e nei luoghi del lavoro, sviliti e declassati dalle strategie direzionali.
Se le mettete assieme potrà scaturire un quadro abbastanza chiaro delle politiche economiche e industriali di questi anni.
Ne sortirà anche un chiaro impegno e un ruolo fondamentale del coaching nel cambiamento morale ed esistenziale di questa transizione confusa e troppo spesso irresponsabile.

Il Tempo del Coaching

Segnalo la pubblicazione di un mio nuovo articolo su Netmanager.it. Ecco il titolo del pezzo e l'incipit:
Il Tempo del Coaching
Quanto tempo deve durare la mia sessione di coaching? Se ne raccontano di tutti i colori in proposito, ma non ha senso definire un tempo standard...

08 marzo 2005

Bonjour Paresse

Solo oggi vengo a conoscenza di quello che si è rivelato un fenomeno editoriale in tutto il mondo.
Con oltre 300000 copie vendute nella sola Francia e la traduzione in più di 20 paesi il libro Bonjour Paresse ha garantito alla sua autrice Corinne Maier dei validi argomenti per non varcare probabilmente più le porte dell'Enel francese.
Mi prometto di procurarmi di prima mano le argomentazioni di Corinne, anche perché da una lettura superficiale delle recensioni e interviste presenti in rete ritrovo molti dei messaggi che in quest'ultimo decennio mi sono trovato io stesso (e probabilmente altri con e prima di me) a esprimere: per citare solo gli ultimi Dal baratto alla post-economia, Missing Culture e Il tempo per sé (sulla stessa lunghezza d'onda quelli di Manager Zen). In terra francese esiste anche quello che potrebbe essere considerato un precursore dell'atteggiamento della nostra autrice, Eric Albert.
Fuori dalla segnalazione, una domanda resta aperta - ed è la prima a cui andrò a cercare risposta nel libro: "La prospettiva di Corinne è ecologica, ovvero ecosistemica?"
Se così non fosse finirebbe per costituire il controcanto del sistema che tanto sagacemente e spiritosamente critica, finendo per inaugurare, non tanto il post-capitalismo, ma un neo-parassitismo a sacche differenziate.
Insomma, dopo la reazione il progetto: un nuovo senso dell'azione e del pensiero.
Comunque, brava Corinne!

24 febbraio 2005

Confidenze abbastanza intime

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Confidenze abbastanza intime
Come i personaggi di un film recente, anche il manager può aver bisogno di un rapporto confidenziale con uno sconosciuto partecipe...

Ricordo i link agli altri articoli già pubblicati sulla stessa testata:
Gruppi di Personal Coaching
In questo articolo, prosegue idealmente quanto descritto in "Corporate e Personal Coaching" sui confini del coaching individuale ed il passaggio dall'individuo al gruppo...
13.01.2005 - Il tempo per sé
25.01.2005 - Corporate e Personal Coaching

23 febbraio 2005

Il manager diffuso

I modelli industriali stanno vivendo qualcosa di analogo alla crisi dell’idealismo che all’inizio del secolo venne segnata dalle nuove epistemologie, dalla psicanalisi, dalla letteratura della spersonalizzazione e da tutte quelle forme di pensiero che hanno corroso la centralità dell’io e del soggetto forte.
È il modello della “Grande Impresa” e non necessariamente quella o l’altra corporation a rendersi evanescente e non certo a beneficio dalla media o della piccola.
Quello che accade è piuttosto la perdita di significato di “grende, medio e piccolo”. L’economia dei Leoni è alla frutta, ma anche le Volpi di Pareto ben difficilmente torneranno.
Gli ultimi grandi timonieri li abbiamo seppelliti o mandati in pensione. Quelli che occupano le poltrone altissime sono gli ultimi fuochi riverberanti un passato dove il sipario è calato tanto sulle luci che sulle ombre.

Già Weick ci aveva insegnato che l’Organizzazione non esiste: esiste solo l’organizzare. Ora non resta che andare a fondo della revisione introdotta da Mintzberg negli anni ‘80, per affermare che i Manager sono morti. Tutti. Da tempo. Non esistono più.
E quelli che si fanno chiamare così, allora? Sono epifenomeni. Non ci sono i manager, ma esiste il management. Ovverosia oggi più che mai si lavora di managerialità. Anzi, l’azienda più competitiva è quella centrata su competenze pregiate initmamente permeate di una condivisione di managerialità.

Per insegnare questo fenomeno dovremmo cominciare a gettare alle ortiche i tradizionali cataloghi di formazione e ripensare la formazione manageriale come un fenomeno diffuso, condiviso, leggero, debole.

Per parafrasare il primo post di Personal Coaching: il manager che non sei è il manager che è anche in te.

14 febbraio 2005

Imprevedibilità

Alte mura e profondi fossati non garantiscono la sicurezza, robuste corazze e armi efficienti non garantiscono la forza.
Se i nemici attendono sulle loro posizioni, attaccali dove sono scoperti, se avanzano per stabilire un fronte, appari dove non se l'aspettano.
Conosci rimanendo sconosciuto! L'arte dell'invisibilità si basa sul distacco interiore. Non è la fama a dare la gloria. Quello di noi che è più noto e di cui si parla meglio ovunque è soprattutto il più vulnerabile e sarà anche il primo nei cui confronti verranno indirizzati gli strali, per aggressione bellicosa come pure per sfida ammirata.

Ho già avuto più di una volta modo di segnalare le affinità fra manager e coach. Se c'è un consiglio che si può dare ad entrambi è quello di essere sempre - o il maggior numero di volte possibile - imprevedibile ed ineffabile.
Due cose dovrai fare ogni mattina, appena svegliato, prima ancora di sciacquarti il viso e lavarti i denti: apri il tuo viso in un sorriso disteso o in un'amorosa risata; proponiti di fare qualcosa di nuovo, anche piccolissimo e irrilevante, sfidandoti di sorprendere prima di tutto la tua persona, anche e soprattutto quando gli altri non potranno vedere o capire.

11 febbraio 2005

Gruppi di Personal Coaching

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Gruppi di Personal Coaching
In questo articolo, prosegue idealmente quanto descritto in "Corporate e Personal Coaching" sui confini del coaching individuale ed il passaggio dall'individuo al gruppo...

Ricordo i link agli altri articoli già pubblicati sulla stessa testata:

13.01.2005 - Il tempo per sé
Quando il lavoro non offre spazio è sbagliato insistere a fare: molto meglio è curarsi degli spazi personali e migliorare se stessi

25.01.2005 - Corporate e Personal Coaching
"Di chi è l’obiettivo dell’intervento di coaching?". Del cliente individuale pagante, di quello sponsorizzato dall’organizzazione o dell’impresa committente, dello stakeholder?

08 febbraio 2005

Bisogno di sicurezza e potere

C’è un confine delicato fra la capacità di previsione e la paranoia.
La paranoia è la più tipica degenerazione del potere. Il sovrano di cui ci racconta Elias Canetti contempla la sua città vuota dopo che ne aveva espulso fino all’ultimo abitante che potesse anche solo lontanamente contemplare l’idea di tradirlo o complottare contro di lui.
Le voci di corridoio soffiano come il vento sull’incendio del sospetto. Eppure il nuovo capo si fida di loro e si attornia di amici della precedente esperienza, anche se incapaci, pur di contare su uomini fidati. I suoi principali fallimenti nasceranno proprio da quei vecchi peones e proprio fra di loro ci sarà quello pronto allo sgambetto.
La paura non si confà al condottiero e neppure il sospetto, ma piuttosto la prudenza e la previdenza. Chi non sa guardare oltre finisce per temere quello che vi si può trovare.
Nello stesso modo in cui non deve vivere all’ombra del sospetto di quello che potrà capitargli, non avrà alcun merito nell’agire in base a quanto è già avvenuto: sarà troppo tardi e il futuro che andrà a scrivere, le gesta che andrà a guidare saranno già state compiute da qualcun altro.
Recita il Libro dell’Equilibrio e dell’Armonia: “Comprendere senza alterare la quiete, compiere senza lottare, conoscere senza vedere (...) L’abilità di agire ciò che è ancora inattivo, di comprendere ciò che è ancora oscuro e di vedere ciò che non è ancora nato sono tre capacità che si sviluppano reciprocamente”.
Soprattutto non in solitudine.
Infine non si apprende a prevedere quando si è troppo coinvolti.
Si impara modificando la propria persona con l’aiuto di altri e ci si fiderà di essa. Solo in essa si crederà nel momento della scelta, senza timore del prezzo che si potrà pagare, né avidità per i premi che si potranno ottenere.

27 gennaio 2005

Dalla carta stampata

Il Sole 24 ore di lunedì 24 gennaio 2005 ha dedicato un bel paginone al coaching.
Nell'insieme il lavoro giornalistico è apparso ben calibrato, anche se - come altri a suo tempo - si comprendevano delle sponsorship latenti. Di chi? Basta leggere il titolo della pagina per capirlo. In primo piano era scritto "Attenzione al «coach» improvvisato", mentre negli occhielli c'erano, prima una spiegazione un po imprecisa "RISORSE UMANE: Anche in Italia è l'ultima moda della formazione aziendale: ecco i criteri-base per scegliere la persona giusta" (quando, come ho già avuto modo di scrivere, se intendiamo il coaching come "formazione" abbiamo perso l'unico vero vantaggio di usare quel termine per distinguere quel tipo di interventi dai corsi); poi ci veniva spiegato quali erano i "criteri-base" giusti, e cioè: "Certificazioni internazionali riconosciute, pratica con un senior e esperienze documentate".

Ancora una volta organi certificatori e corporazioni per qualcosa che non è né una scuola, né una teoria, ma solo una modalità, una categoria di approccio a un detarminato tipo di lavoro. Ovverosia, è comprensibile che per essere psicanalista occorra una formazione specifica ed eventualmente la certificazione della "licenza" acquisita; lo stesso per essere sistemici, gestaltici e così via. Anche per fare la Programmazione Neuro Linguistica (PNL o NLP), seppure non dia accesso ad albi di psicoterapista o altro, essendo una specifica collazione di tecniche e metodologie occorrerà essere certificati.

Invece per "fare i formatori" non viene richiesta nessuna certificazione. Se la si ha è meglio per chi la detiene, la si può anche mostrare, ma non cambia nulla e niente toglierà mai al fatto che la maggior parte dei formatori non ha certificazione alcuna. Un professore si può considerare formatore solo per questo titolo anche se nulla sa dei percorsi formativi dell'AIF, dell'ASFOR o di altre associazioni, corporazioni o scuole di formazione. Figuriamoci quando a fare formazione è il geometra o il venditore bravo, quanto illetterato.

Lo stesso vale per il coaching: chi certifica il certificatore? Non esiste un marchio registrato di qualcosa che si chiama coaching e neppure esiste un manuale che dica esattamente che cosa sia il coaching in maniera univoca. Ogni scuola e soprattutto ogni professionista lo interpreterà a suo modo. Si spera che almeno abbia chiari i fondamenti della disciplina, come ad esempio il contratto e l'obiettivo finale. Nonostante questo nulla potrà garantire al cliente di avere a che fare con la persona giusta. Nemmeno l'appartenenza a qualche congrega. Ci sono nomi e scuole che sono noti a molti ed essere affiliati a loro è un grande vantaggio per il professionista e una qualche garanzia per il cliente che se si cade almeno lo si farà sul morbido.

Ci sono comunque bravi professionisti sciolti o appartenenti ad altre famiglie professionali che fanno del coaching bene o anche meglio di altri che vantano ascendenze oltre-oceaniche. Essere legati a qualche padre putativo americano non è una garanzia di qualità, ma casomai solo un proclama di parte, una presa di posizione stilistica che può essere o meno condivisa (personalmente ritengo che siano troppi gli elementi della cultura statunitense che non sento appartenere alla nostra, come i predicatori gli anchor man da adunate oceaniche e così via).

In box ci trovate anche un po' di titoli. Non posso dire di conoscerli tutti. Posso invece rilevare la mancanza di diversi testi interessanti, anche se meno di - quella - parte. Fra i tanti, consiglio di leggere i capitoli dedicati a questo filone nel libro Oltre l'aula a cura di Boldizzoni e Nacamulli, uscito per Apogeo (le parti sono a firma di Gian Franco Goeta, Claudia Piccardo e Monica Reynaudo e Alessia Rossi).

Un'ultima cosa che mi pare significativo rilevare è la scarsità di dibattito sulle metodologie (visto che sulle teorie sarebbe impossibile) e caso mai sulle tecniche, che invece sarebbe il contributo più importante per fondare una professionalità di questa disciplina. Questa discussione, seppure non è del tutto assente, è molto scarsa, prova ne sia che su Internet troverete moltissime scuole, associazioni, società, professionisti, ma pochi testi, poca o nulla discussione, nel momento in cui proprio di questa ci sarebbe più bisogno.

Da qui si dovrebbe partire tutti, profesxsionisti, studenti, clienti e giornalisti, anche.

24 gennaio 2005

La via Yin

Quando il coaching è centrato sul cliente abbiamo a che fare con degli esponenti della scuola yin del coaching.

I maestri di questo approccio sono particolarmente orientati all’altro e inclini a farsi plasmare nella profonda convinzione che sia un’istanza di tipo radicalmente democratico a guidare le relazioni nel setting. Per questo tende a qualificare come impertinente e presuntuoso ogni intervento che fornisca indicazioni precise di comportamenti e valutazioni (anche se una certa inclinazione alla domanda retorica finisce per risultare ancora più condizionante, costringendo gli altri a delle confessioni di errore).

La scuola yin si riconosce per alcune caratteristiche grammaticali: la predilezione per il soggetto impersonale “si” (“si dice”, “si pensa”, “qualcuno afferma”…), la nominalizzazione (“la transferalità della mentalizzazione del gruppo”) e una certa inclinazione al verbo passivo (la “parola parlata”, “è stato portato all’evidenza” …).

I verbi preferiti sono osservare, ascoltare, comprendere, interpretare, sentire, ricevere, accogliere…

Questa disposizione al ricevere, all’accogliere, ma anche al fagocitare, allo strumentalizzare, porta a un certo rifiuto nei confronti delle attività didattiche o sperimentali e a una certa delega ai partecipanti delle decisioni e della stessa produzione di contenuti e relazioni.

I contenuti stanno alla scuola yang come il metodo sta a quella yin. Quello che per gli uni è il "riempire" per gli altri è il "sistemare" (non a caso uno dei momenti classici degli interventi yin è la sistematizzazione).

Un simile atteggiamento può essere scambiato per rifiuto, indisponibilità al lavoro o incapacità, tuttavia solo dei grandi professionisti possono permettersi di appartenere alla scuola yin (laddove per cavarsela nella scuola yang può essere sufficiente la conoscenza di alcune lezioni o di un canovaccio preconfezionato).

Spesso provengono da un percorso di formazione psicologica, in particolare orientata alla clinica e al lavoro con i gruppi. Nell'attività organizzativa in genere il loro background di riferimento è costituito dal counseling (la scuola di E.H. Schein, come di Weick e altri).

Si nutrono dei silenzi del gruppo e li sanno usare come dei torchi per spremere dai partecipanti il massimo sforzo e i maggiori contributi.

Si trovano qui dei guru, dei maestri di vita e dei conoscitori di anime che per questo sono meno versati all’insegnamento e al trasferimento di contenuti, come pure al lavoro sulle situazioni concrete e locali. Per questo il loro lavoro si rivolge a personale altamente motivato, sia ai contenuti che allo sforzo di coinvolgimento. I partecipanti a questi gruppi ricercano delle esperienze dirette in cui intervenire come attori, a partecipare a lunghe sessioni di riflessione, di silenzi e di messa in discussione di se stessi.

20 gennaio 2005

La via Yang

Quando il coaching è centrato sul coach abbiamo a che fare con degli esponenti della scuola yang del coaching.

I maestri di questo approccio sono particolarmente generosi di sé, nella convinzione che sia fondamentale fornire ai propri assistiti delle prove “tangibili” del loro contributo. Questa concretezza si esprime sotto forma di istruzioni, contenuti, sperimentazioni pratiche, esercitazioni lavorative o ludiche.

Il verbo della scuola yang non si esprime mai in forma passiva: solo attiva. Quelli preferiti sono fare, dire, parlare, illustrare, intervenire…

I più esperti sono quelli che conoscono il maggior numero di aneddoti, barzellette, citazioni, espedienti faceti per ingraziarsi i partecipanti divertendoli e rendendo loro leggero l’effluvio di contenuti.

Spesso provengono da una consumata esperienza di formazione.

Fanno grande uso delle tecniche e delle tecnologie, dalla slide al computer, dall’esercizio corporeo o relazionale alle esperienze outdoor.

Non sopportano i silenzi del gruppo che vivono in maniera imbarazzante e colpevole.

Sono ottimi maestri concreti, indispensabili nell’addestramento e nell’apprendistato, come pure per far fare bella figura all’ufficio formazione con i gruppi di dirigenti, tipicamente più propensi a fare da spettatori che da attori e poco inclini alla riflessione, al silenzio e alla messa in discussione di se stessi.

11 gennaio 2005

Il dilemma paradossale

Il bravo manager ha in comune con il bravo coach una difficile scelta:
Un signore dei tempi andati domandò al proprio medico personale, membro di una famiglia di guaritori, chi di loro fosse il più versato nella propria arte.
Il medico, la cui reputazione era tale che il suo nome era diventato sinonimo della scienza medica cinese, rispose:
"Il primogenito vede lo spirito della malattia e lo rimuove prima che prenda forma; perciò il suo nome non varca i confini della casa.
"Il secondogenito cura la malattia quand'è ancora agli inizi; perciò suo nome non è conosciuto al di là del vicinato.
"Per quanto mi riguarda, pratico l'agopuntura, prescrivo pozioni e massaggio il corpo; così talvolta il mio nome giunge alle orecchie dei potenti".
Tu cosa sceglieresti: la bravura o la fama?

Una scelta veramente difficile!

01 gennaio 2005

On line

È possibile il coaching on line?

Chi legge questi miei appunti sarebbe portato a pensare che lo reputi impossibile. Non è così. Non del tutto, almeno. Tutto sta a stabilire che cosa s'intenda con il termine.

Passiamo invece sopra alla questione. Chi dà aiuto on line, magari gratis o in forma complementare ad altri servizi, ha preso un'iniziativa encomiabile, anche se non può sostituire il rapporto diretto.

Penso comunque che, soprattutto come trasferimento distale del setting di gruppo, gli ambienti virtuali possano costituire:

  1. Innanzitutto un'economia di scala: non occorre prendere appuntamento per il solo bisogno di mantenere vivo il contatto o per una indecisione

  2. In secondo luogo può consentire una continuità simultanea e sinergica alla vita lavorativa che il solo rapporto di studio non permette


Certo, per il coach è un impegno in più, che comporta un certo apprendimento. Lo stesso vale per il cliente, soprattutto quando trovi ostico il rapporto con il computer.

Per questo penso che sia proprio il gruppo virtuale - ovviamente moderato dal coach - il setting ideale per questo tipo di esperienza.

Un'esperienza in ogni caso da provare.

Di che coaching sei?

Quando 20 anni fa e forse un po' di più :-( cominciai a dedicarmi alla formazione le bibbie che studiavo già parlavano di coaching come di un'esperienza vecchia, marginale.

Era il fio che il capo squadra doveva pagare all'azienda quando arrivava un nuovo assunto. Già allora aveva un termine più proprio in italiano, ma già allora parlare di "affiancamento" stava così maaalee... Era quasi degradante.

Oggi per farsi capire bisogna usare lo stesso termine che però, al contrario di allora, sta alla formazione come l'alta moda sta al pret-a-porter.

Nonostante mi sia appropriato da circa 20 anni delle stesse tecniche a stelle e strisce cui attingono certi coach, non cerco quel tipo di rapporto e sono sicuro che qualche cliente potrebbe restarne deluso.

Mi viene, a questo punto, fatto di pensare a lui, al cliente di coaching. Bisognoso di un miracolo che possibilmente lo coinvolga il meno possibile. Quello che si vuole mettere in mano a qualcuno che faccia tutto da solo e che lo rimetta a nuovo. E penso anche a quello un po' più evoluto, che vuole essere padrone delle proprie trasformazioni che crede nel lavoro su se stesso, a volte anche duro e del valore dei risultati.

Penso a loro e comprendo che non ci sono parole che non siano già usate a sproposito da tutti per orientarlo nella scelta delle mani in cui mettersi.

A volte seguono il consiglio di qualche amico o collega: "E' stato proprio un fine settimana esaltante. Mi sento diverso. Sono cambiato in un paio di giorni. Devi proprio provarlo anche tu!"

La sola cosa che riesco a dire è che non tutti i coaching sono dello stesso segno come non lo sono i clienti e probabilmente occorrerebbe una certa sinastria in un rapporto d'aiuto. È però qualcosa di pelle. Occorre sentirsi entrambi. Oppure essere entrambi di bocca buona.