07 ottobre 2005

Oltre la formazione apparente dieci anni dopo

A volte una domanda vale un intero trattato se solo colui a cui viene posta ha voglia di soffermarsi a riflettere.
Sono passati vent'anni dalla pubblicazione della raccolta di saggi a cura di Daniele Boldizzoni a proposito della formazione apparente, tutto fumo e niente arrosto.
La definizione non era poi neppure sua, l'aveva presa in prestito da Bruno Maggi che denunciava il fenomeno ben dieci anni prima, ovvero ormai trent'anni fa.
Oggi alla formazione potremmo affiancare altri servizi, come ad esempio "la consulenza apparente" o "l'informatizzazione apparente"... Fate un po' voi.
Potremmo domandarci se è un problema di offerta o di domanda. Potremmo pensare all'e-learning o ai mille neologismi dei giovani azzimati consulenti anglofoni...
Insomma pensiamo a quello che vogliamo, ma pensiamoci almeno per capire in che mondo - e, nello specifico, in che mondo del lavoro - viviamo.
La domanda, ovviamente, è questa:
"Esiste ancora - di più o di meno di trent'anni fa - la formazione apparente?"
(...e "l'impresa apparente"?...)
cfr.: Maggi B. (1974) La formazione apparente: alcune ipotesi di ricerca. In: “studi organizzativi”, 1, 1974

cfr.: Boldizzoni D., Oltre la formazione apparente, Milano, Il sole24ore, 1984

[Se volete intervenire in proposito o azzardare delle risposte usate lo spazio dei commenti qua sotto]

Svezzamento e rinforzo

Se nel Personal Coaching si hanno sempre più spesso domande di recupero della propria indipendenza e quindi di desensibilizzazione da un certo modello manageriale tardo-yuppie con cui ci si è trovati a crescere e che ancora viene - il più delle volte incoerentemente - propinato, nel Corporate Coaching le cose appaiono diverse.
In realtà si tratta poi spesso dello stesso problema visto dall'altra parte dello specchio.
I bisogni dei gruppi aziendali in questo lungo guado epocale possono essere rappresentati in due grandi categorie: quella dello svezzamento e quella del rinforzo.

La richiesta di svezzamento la si ritrova fra le imprese startup createsi a seguito di due fenomeni: la nascita di nuovi comparti, spesso legati alle nuove tecnologie o più semplicemente a nuove forme di business, e l'espansione non di rado selvaggia dei fornitori di outsourcing a seguito dello svuotamento strutturale delle grandi imprese.
Si svezzano frequentemente manager - se così si può ancora dire - giovani, con un bagaglio formativo scolastico ma poca esperienza di conduzione aziendale, di visione d'impresa e con poca creatività e flessibilità nel problem solving. Si tratta di accompagnarne la crescita e spesso di incoraggiare la sicurezza nel proprio operato. Una prassi maieutica necessaria, anche se raramente può essere dichiarata in questo modo.
Il coaching si mischia con la formazione in quanto devono essere frequentemente trasmessi anche rudimenti di professionalità.
Soprattutto va insegnato un metodo di lavoro, un imparare ad imparare. Non di rado al coach tocca anche di consigliare certi corsi di formazione specialistici che altrimenti non verrebbero evidenziati dall'emergenza operativa.
Questo tipo di bisogno si scontra però con il modello di business dell'impresa, frequentemente refrattario a investire nel personale perché non vi si ravvisa un ritorno diretto di interessi. Gli imprenditori vorrebbero la botte piena e la moglie ubriaca: girare su dipendenti spesso sotto pagati il carico della loro formazione, aspettarsi che occupino tutto il loro tempo lavorativo nell'esecuzione di compiti e nell'assunzione di responsabilità portando dei risultati anche se si sono prese persone che non hanno le basi per poterlo fare, basi che spesso richiedono una capacità critica, anch'essa poco apprezzata dagli imprenditori.
Spesso il coach per poter soddisfare questo tipo di necessità si trova costretto a compromessi poco professionali nella definizione del contratto e nella descrizione del tipo di lavoro. La conseguenza è frequentemente un processo limitato e frustrante.
D'altro canto, se si frammenta il lavoro in più step definiti da obiettivi limitati e verificabili, la percezione dei risultati può essere rassicurante tanto per i fruitori che per i committenti.
Il prezzo da pagare è una certa insoddisfazione nel non vedere realizzarsi i miracoli di un management brillante tutto-subito a costi zero.
Con il tempo e con la maturità derivante dal realismo disilluso degli uni e degli altri si potrà anche arrivare ad un rapporto fiduciario graduale e fondante.

La domanda di rinforzo, invece, si presenta più frequentemente in imprese già avviate e consolidate, spesso addirittura più che mature, che per combattere il rischio di obsolescenza hanno introdotto processi organizzativi innovativi.
In questo tipo di aziende non è rado che convivano i modelli burocratici dell'impresa tayloristico-amministrativa e i precetti di flessibilità competitiva tipici delle società di mercato. Chi si trova al centro della contraddizione sono spesso i quadri e i dipendenti che cui tocca, volenti o nolenti, di assumere responsabilità che un tempo erano poste in dirigenti soppressi dalle ristrutturazioni.
La frustrazione di professionisti nati in un altro modello d'impresa, cancellato da pochi anni che sembrano già un'eternità, che ora si trovano a farsi carico di responsabilità pretese e non riconosciute, si accompagna spesso a un senso di inadeguatezza.
Non si sa se si è all'altezza del compito gravido di rischi. "Che cosa vogliono da me?", "Che cos'è questo strano tipo di azienda che questi vogliono realizzare?", "Come faccio a pensare un modello organizzativo che neppure i capi sanno spiegarmi, rigirando tutto sulla pretesa che ad essere flessibile e cretivo sia io?" sono alcune delle domande che pesano sulle figure che manifestano questo bisogno.
L'impresa lo identifica in necessità di "adeguarsi al cambiamento", spesso senza sapere neppure bene che cosa si voglia ottenere e che cosa voglia dire.
L'impressione è che si debbano fare le cose in grande, quando in realtà è spesso sufficiente dimenticare i modelli vecchi, quelli "fondamentalisti", per imparare una leggerezza (calvin-kunderiana) e una provvisorietà dello stile di lavoro che il professionista lavorativamente nato fino a una decina d'anni fa fatica ad accettare.
In realtà le capacità non mancano a patto di sconfiggere la resistenza, la paura e il senso di inadeguatezza.
Il coaching di rinforzo consiste il più delle volte nel far cambiare lenti ai destinatari degli interventi. Portarli a guardare all'impresa e al proprio lavoro in modo diverso, disincantato e pratico, con una scatola di attrezzi ridotta all'essenziale, ma efficace un po' per tutto, fuori dalle grandi appartenenze a famiglie aziendali e identità professionali.
Questo non con l'indottrinamento di evangelizzazioni all'americana, prediche d'importazione o precetti sparati supinamente da proiezioni di Powerpoint, ma piuttosto con l'action learning, la ricerca-intervento, la supervisione delle esperienze, accompagnate da frequenti feedback di fiducia che nascono dal far riconoscere il successo del proprio operato anche se è diverso da quello che avrebbero dovuto ottenere ieri, nell'altro tipo di organizzazione.
L'accettazione della crescita è anche assunzione di invecchiamento laddove gli effetti sono superiori al tempo intercorso, come se il mondo in cui si era nati apparisse in pochissi anni più vecchio di cent'anni.
Tuttavia quando, come dice De Gregori "si accetterà questo fatto - che le cose del passato non ritorneranno più - come una vittoria" nascerà un senso di liberazione, il sollievo da un peso inutile e pregiudiziale. A questo punto si tratterà di convivere con le contraddizioni di un'azienda che magari paga normalmente il coaching dei propri dipendenti, ma non potrà mai affermare di avere richiesto certi risultati.
Anche qui si vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca: flessibilità nell'osservanza della norma, soddisfazione dai carichi di lavoro e di responsabilità e non dai ritorni economici e professionali derivanti, proceduralità creativa e così via. Questo aspetto, tuttavia, si supera facilmente: basta, ad esempio, non usare termini forti e compromettenti, ma piuttosto delle sfumature.
La fiducia in se stessi dei professionisti genera tranquillità nell'azienda e il sano realismo potrà sposarsi più facilmente con l'innovazione.

Detto questo non stupisce che in qualcuno dei coach possa restare un senso di incompiutezza e di insoddisfazione: "Ma quando mai si arriverà al fondo del lavoro?", "Esiste la possibilità di trattare il mondo delle cause?"
Probabilmente no, proprio perché un gioco non ha delle cause e spesso va cambiato, non perché non andava bene, ma solo perché ci va un gioco nuovo.
Tuttavia il vero gioco nuovo, quello che farebbe giocare tutti con un po' di soddisfazione in più sarebbe il coaching della domanda, che invece per definizione è presuntuosamente indiscutibile. Chi chiede l'intervento "sa quello che vuole e la cosa non è discutibile".
Un po' alla volta, sia che si operi di svezzamento che di rinforzo, occorre arrivare a rivolgersi ai committenti per discutere con loro sugli effetti del lavoro e costringerli a riformulare la domanda iniziale.
In questo modo si potrà insegnare a chi richiede a scoprire quello che veramente serve e quello che si avrebbe fatto meglio a chiedere.
I committenti devono imparare a desiderare meglio, essendo in questo come dei bambini che spesso spenderebbero subito tutto quello che hanno in tasca per comprare il gioco che passa più frequentemente in televisione o quello che ha il bambino di fianco, mentre se li porti a chiedere a se stessi a che cosa vorrebbero veramente in questo momento giocare, invece di chiedersi che gioco vorrebbero comprare, come vorrebbero veramente occupare il loro tempo e non quale desiderio vorrebbero sedare, allora scoprirebbero che è tutto meno caro e meno frustrante, più semplice e più felice.