28 ottobre 2008

Perché il duemilaotto non è il sessantotto

Dobbiamo parlare della legge Gelmini?

Quanti hanno veramente letto i contenuti di quel decreto legge?
Ben pochi da quanto si sente dire in giro.

Che la finanziaria e la gestione economica del governo Berlusconi abbia stornato fondi pubblici destinati, fra l'altro, all'istruzione per favorire realtà come l'Alitalia, portando vantaggi alle imprese che guadagneranno dai lavori per Fiera Internazionale di Milano, ha ben poco a che vedere con le tre paginette scarse e striminzite del decreto 137.

Della Gelmini c'è ben poco da dire se non che è un compitino da insufficienza, una non-legge che non cambia nulla e quel poco che modifica è irrisorio e non merita nemmeno un'assemblea, altro che un'occupazione.

Invece, nell'Italia da operetta dove tutto è tifo senza sostanza, per partito preso e per appartenenze a club dell'inefficienza particolaristica, al di là delle parrocchie, si strumentalizza tutto e in primo luogo gli studenti che hanno l'illusione di stare facendo un altro sessantotto, nella speranza di incidere nella storia e di fare parte di qualche cosa che sembri autentica.

Il sessantotto studentesco muoveva contro l'ideologia conservatrice ben rappresentata dalla classe insegnante immobilista dell'epoca. Il loro fine era cambiare quella scuola: affermare che il cambiamento era possibile. E, al di là dei libretti rossi di Mao per una Rivoluzione Culturale cinese di cui il tempo dimostrò le falsità e i veri obiettivi, la partecipazione agli scioperi e alle manifestazioni dei lavoratori rappresentava una nuova coscienza dei giovani che si rendevano conto che per cambiare il loro status occorreva che uscissero dal limbo scolastico per partecipare alle scelte politiche ed economiche del Paese.

Dopo il '68 vi furono molti cambiamenti, soprattutto nelle coscienze e nei soggetti con nuovi poteri di influenzamento che solo la crisi del politico e i paradossi delle finte rivoluzioni violente interruppero.

Una cosa è certa; almeno in Italia, niente smosse la Scuola. Ora si studia diversamente, è vero, e ci sono insegnanti diversi qua e là; scuole sperimentali, modi di gestione diversi. Ma tutto ciò sono mosche bianche. Gli insegnanti e i presidi coraggiosi non sono molti e hanno come nemici, non il governo, ma in primis i loro stessi colleghi e non di rado il gruppo dei genitori. Chi efficienta finisce per favorire i parassiti che guadagnano in soldi e potere dalle capacità degli altri. E non è un problema di tutte le Istituzioni nel mondo. In molti altri paesi non funziona così. Prendiamo gli esempi giusti, come quelli dei paesi scandinavi.

Il fatto è che nessuno è riuscito a cambiare la Scuola italiana. Per essere più precisi, è stato sempre impossibile fare passare l'affermazione che la Scuola potesse cambiare, che fosse possibile un'autentica riforma scolastica. Da quando, più di trent'anni fa, entrai per le porte del liceo e presi coscienza della situazione, ad oggi vige sostanzialmente la stessa organizzazione del sistema scolastico che si contestava, risalente essenzialmente alla riforma Gentile del periodo fascista.

Nella Scuola, chiunque cerchi di cambiare viene ostacolato e combattuto, al di là della parte politica che rappresenta, essendo strumentalizzato dall'altra parte per fini che esulano gli obiettivi di cambiamento. La classe insegnante per difendere i propri privilegi fa come il figlio di divorziati che si rivolge a mamma quando papà non dà l'assenso, salvo poi fare l'inverso quando non gli convenga.

La scuola è fatta di alcuni insegnanti e presidi e tecnici e bidelli coscienziosi, onesti e coraggiosi, l'abbiamo detto, che però - sui grandi numeri della maggioranza conformista e opportunista - sono un'esigua minoranza. E ora, chi ha risparmiato ed efficentato paga il fatto che gli altri non l'abbiano fatto, continuando a mungere la mucca strizzando ancor più duro, se mai fosse possibile.

La qualità dell'insegnamento è fuori discussione e l'orientamento al cliente e il miglioramento continuo fanno ridere tanto il professor Aristogitone di Salò che la professoressa Cheghevara del loft.

In tutto il paese si parla di tagli e di efficientamento in quanto indispensabile, ma ci sono luoghi, come i ministeri, la burocrazia, la sanità, le università e le scuole dove questi ragionamenti non si possono fare. Noi dobbiamo pagare le tasse per garantire i privilegi dei baroni, la noia dei bidelli, l'indotto come l'editoria anti-tecnologica, l'analfabetismo dei maestri raccomandati, l'anti-pedagogia degli insegnanti non valutabili intoccabili per i provveditorato, l'impotenza dei presidi irrisi dai consigli dei docenti…

Qualcuno chiama tutelare tutto questo marciume: "difendere il diritto allo studio e la scuola pubblica". Persino i giullari si mettono a sentenziare dai varietà televisivi per il fatto di avere fatto parte di una casse protezionistica e parlano a frasi fatte occultando ben bene le stanze delle vere colpe.

Il duemilaotto non è il sessantotto, perché oggi i giovani, manipolati da partiti, genitori e anche insegnanti, in maniera contrapposta a quelli dell'epoca, stanno combattendo il cambiamento.
Mi spiego meglio: come ho già detto, il decreto Gelmini non cambia niente e i fondi stanno in un'altra rubrica. Tuttavia, qualsiasi affermazione di cambiamento dovrebbe spingere, non a difendere lo status quo, ma piuttosto a mettere in discussione il cambiamento stesso per cambiare di più e meglio. Questo sarebbe, però, per la classe insegnante e per i para-scolastici, un danno ben peggiore della Gelmini. Quindi combattere il decreto 137 è sbattere il mostro in prima pagina per distrarre, in maniera in realtà utile ad entrambe le parti (gli insegnanti conservatori, sornioni, stanno a guardare), l'attenzione dai veri problemi e dai veri obiettivi.

Per chiarire, torno indietro nel tempo, quando Luigi Berlinguer, ministro dell'istruzione di un governo di centro-sinistra, propose che si introducesse la valutazione periodica del corpo insegnante e l'incentivazione per chi otteneva risultati di valore, pur senza penalizzare gli incapaci (!!!!!!). Ebbene, l'allora ministro (che oggi lamenta dal Sole 24ore di sabato 25 ottobre argomentando in maniera simile a questa, stando fuori dalle parti di questa contrapposizione fasulla e strumentale) si prese tante di quelle sberle, insulti e torte in faccia da dovere tacere per sempre, anticipando di un ventennio l'effetto Bersani con le sue liberalizzazioni stroncate in maniera bi-partisan. Perché l'Italia è in mano alle lobbies - il vero potere è là: che siano Notai o Insegnanti, non riuscirebbe a toccarli né Stalin, né Hitler, figurati un Berlusconi o un Veltroni.

Ma i giovani ci possono e ci devono provare a difendere il loro diritto di avere un servizio pubblico efficace ed efficiente; hanno diritto di chiedere, non solo al governo dove manda i soldi (perché il vero problema non è "quanti", ma piuttosto "in che tasche"), ma anche ai provveditori e ai presidi, dove li fanno finire e come li usano. Hanno diritto di vedere gli stipendi degli insegnanti e dei bidelli, di fotocopiarli e di confrontarli con quelli dei genitori immersi nella crisi e senza tutele.

Hanno soprattutto diritto di chiedere quali garanzie sono date loro e che questa scuola dove sono finiti non sia altro che un sadico bacino della disoccupazione a valle del quale spetta loro la vergogna del lavoro nero dei tirocini (manipolati dall'associazione a delinquere scuola-impresa) e lo sfruttamento del precariato e del lavoro a progetto delle leggi bi-partisan (create a sinistra e perfezionate da destra, entrambi intenti a spiegarci che non è andata così).

Il giorno in cui ci sarà uno sciopero generale dei lavoratori, quelli che veramente stanno soffrendo questa crisi, allora sì che i giovani dovrebbero scendere in piazza per difendere il loro futuro e non oggi per vicariare gli insegnanti nella negoziazione dei loro contratti di lavoro. Quegli stessi che il più delle volte nulla fanno per favorire il cambiamento e l'autonomia di spirito dei giovani e sempre difendono la scuola dalla possibilità di cambiare.

Si paventa che si voglia favorire le scuole private e si agita un fantasma che non è chiamato in causa da nessun decreto di legge, ma al più da affermazioni di politicanti. Le scuole private soffrono come, se non più di quelle pubbliche e anche quelle andrebbero cambiate in meglio. Ma il vero obiettivo è spendere bene i soldi per cambiare tutto ciò che va cambiato al fine di rendere efficiente l'istruzione di qualsiasi ordine, grado e gestione. Di studiare per un futuro e di preparare un mondo che non ha più bisogno di queste farse bi-partisan, ma invece di un cambiamento di cultura e di costumi.

Ma, si sa, i giovani hanno delle priorità, come la socializzazione e il divertimento e forse delle occupazioni protette, perché addirittura qua e la consentite come degli after hours da insegnanti e presidi, sono ottime occasioni per stare insieme, al di là degli slogan: così era dopo il maggio del sessantotto, così sarà in questa simulazione pretestuosa del duemilaotto.

A noi, vecchi disillusi, non rimane che cantare assieme a Giorgio Gaber, "Non insegnate ai bambini".

27 ottobre 2008

Facebook: un fenomeno tutto italiano


La comunità italiana di FaceBook, il "libro delle facce", ha superato i 2.250.000 (a parole suona meglio: due milioni duecentocinquantamila) iscritti.

Per capire con che cos'abbiamo a che fare immaginiamoci di mettere insieme tutte le facce - appunto - della città di Roma con uomini, donne, vecchi e bambini.

Il villaggio globale preconizzato da Herbert Marshall McLuhan nella metà del secolo scorso non è mai stato tanto evidente come dall'avvento dei programmi e dei siti di social network.

All'inizio, anche se non fu proprio il primo, cominciò ad avere successo LinkedIn, il sito di condivisione di reti professionali. Da allora ci provarono in tanti: Google con Orkut, Neurona e poi Xing o Netlog per i più giovani…

Eppure mai nessuno era arrivato ai risultati di FaceBook.

Ora sono in tanti ad interrogarsi sul senso di questo successo.

Pietro Gentile e con lui Vittorio Pasteris sostengono che si tratti di un sito per giovani americani diventato presto uno strumento per adulti italiani.

Eppure su Facebook ci sono nomi famosi statunitensi cui è possibile richiedere di fare parte della propria rete di contatti.

Sono in molti a pensare che si tratti di un fenomeno completamente inutile, ma la sua improvvisa virulenza lascia qualche dubbio in proposito.

Al di là dei tanti meccanismi di funzionamento e della ricchezza delle applicazioni, quello che emerge non è il programma, ma il comportamento d'uso. Ci si comporta tenendolo sempre aperto come un ambiente in background che ti fa percepire che cosa sta avvenendo nella rete di persone che conosci, proprio come se fossero nello stesso luogo assieme a te. Non ci si scambia neppure molti messaggi, anche se è possibile ogni tanto chattare con qualcuno che hai visto disponibile. Ma ben difficilmente può essere considerato il luogo di appuntamenti amorosi, in quanto, fra l'altro, è troppo esposto e il target è ben diverso.

È la percezione di comunanza simultanea che fa la differenza.

Con quasi due milioni e mezzo di iscritti ci trovi un po' tutti: amici che avevi perso di vista, compagni di scuola insospettabili…

Non vai su FaceBook per uno scopo, come nel caso, ad esempio, di LinkedIn: ci vai solo per andarci e può accadere che avvenga qualcosa in genere del tutto imprevisto. Il bello è proprio questo.

Ci metti le tue foto, un video di YouTube che ti è piaciuto o un link interessante e non ci pensi più; non ti preoccupi di chi possa essere interessato.

Insomma, il primo elemento interessante è proprio questa condizione del tutto stocastica, incidentale, casuale del mezzo ad essere del tutto originale. Diversamente da un Instant Messenger, come MSN, ad esempio, o da un programma di comunicazione integrato come Skype, FaceBook si caratterizza come un ambiente.

La seconda, e personalmente ancora più interessante, considerazione è che questo "Ambiente" si distingue per privilegiare una dimensione locale, un po' com'era per le vecchie BBS, gli ambienti virtuali creati nel computer di qualche amico della tua città e spesso del tuo giro - solo che quello era per nerd, per smanettoni, mentre questo è facile per tutti e attira soprattutto quelli meno pratici per la sua semplicità. Per la prima volta si torna a vedere su Internet qualcosa di simile alle comunità della Baia, quella di S. Francisco, descritte nell'ispirato "Comunità Virtuali" di Howard Rheingold.

Non è perché FaceBook sia bello che si sono iscritti tanti Italiani, ma piuttosto è perché si sono iscritti tanti Italiani che la gente si iscrive a FaceBook. Io ci ero entrato circa un anno fa e poi non c'ero più tornato, perché era un ambiente staunitense (oltre che allora piuttosto grezzo) e sentivo che non avrei avuto nulla a che fare con tutto ciò. Oggi è un mondo diverso: conosco molte persone e trovo esperienze che mi dicono qualcosa in una lingua con cui mi sento a mio agio.

Insomma, la gente sente meno il bisogno di potenza della rete delle reti che ti dà l'illusione di avere sottomano il mondo, nello stesso modo in cui sta conoscendo il piacere di consumare di meno, e per un senso di ecologia, di pulizia mentale, non solo perché costretta a risparmiare. Quello che desideri è stare a casa tua, di parlare la tua lingua, di potere contare sulla comprensione che deriva dal fare riferimento alle stesse esperienze e allo stesso modo di pensare condiviso in una mente locale, invece che globale.

Non è raro ricevere richieste dal resto del mondo, ma quello che colpisce è che la maggior parte di queste è costituita da gente che ha il tuo stesso cognome e che desidera ricostruire una comunanza, una vicinanza, delle radici e ricreare il borgo dell'appartenenza com'era un secolo fa nelle comunità contadine.

Il Social Network mostra il bisogno del ritorno ad una dimensione umana, al "villaggio esteso" di tipo naturale più che al "villaggio globale" potenzialmente infinito. Esprime il bisogno di occuparci più della scuola dei nostri figli o delle possibilità di aprire progetti di lavoro o associazionistici nella tua città, piuttosto che nella tua regione.

Si fa sempre più difficoltà a sentire il parlamento o il governo come un soggetto che ci appartiene, figuriamoci quale voglia abbiamo di interessarci di chi sarà il presidente USA o dei nuovi ricchi russi. Ce li troviamo fra i piedi e sappiamo che la nostra vita è condizionata anche da quei fatti, ma non abbiamo più voglia di disseminarci in quel villaggio globale.

Preferiamo di gran lunga, ne sentiamo anzi un bisogno sempre più prepotente, percepirci in una comunità di vicinanza, di quartiere e di condivisione della storia del tutto locale. Chiederci che tempo fa, come va la scuola di tuo figlio, che cos'hai fatto nel week-end, se hanno aperto il nuovo negozio vicino…

Abbiamo bisogno di una vita qui e ora, di una piazza del paese, di abitudini quotidiane, della percezione della comunità del borgo…

Siamo stanchi del Mondo.

E la tecnologia di successo e quella che finalmente ci consente di "tornare a casa".

21 ottobre 2008

La Rana e l'Occidente

Per chi non vuole leggere.
Dal momento che in molti confessano di non avere voglia di affrontare la lettura delle mie sempre più lunghe filippiche, ho deciso di farle precedere da una sintesi contenente i principali passaggi, affrontabile in pochi secondi. Il resto è di corredo.

Estratto dell'articolo.
La crisi in corso è culturale e sociale prima che economica. La buona notizia è che ben difficilmente le cose torneranno come prima. La speranza è che ci si avvii a una cronaca dell'economia reale come l'unica economia possibile. A forza di un passo in avanti e due indietro, ci stiamo abituando a un cambiamento che avverrà inesorabile senza vere e proprie rivoluzioni, proprio come capita alla rana nelle mani del cuoco. Se il cuoco prende la rana e la getta a cuocere nell'acqua calda, questa al primo contatto schizzerà fuori e farà di tutto per non farsi riacchiappare. Quando invece il cuoco la stende nella pentola piena di acqua fresca, magari in compagnia di altre sue simili, la rana si troverà a suo perfetto agio. Apprezzerà piuttosto il fatto che l'acqua diventi sempre più tiepida ed essendo il fuoco molto lento, l'animaletto si troverà bello e bollito, essendo trapassato più o meno dolcemente senza mai accorgersi di dove si trovava e di quello che stava accadendo. In modo simile il mondo occidentale non vedrà mai il giorno in cui si sarà passati da una cultura socio-economica ad un'altra. Civiltà vuol dire comprendere che il lavoro è l'operato che un cittadino realizza a favore di altri cittadini e non il mezzo per generare del profitto fine a se stesso. Civiltà e potere sono termini antagonisti ed è quindi giusto che chi mira al potere non debba godere della civiltà. Queste sono le coordinate dell'unico mondo nuovo che molte generazioni dopo di noi potranno vedere al termine della lunghissima crisi che verrà. Credo che se dovessi dare un'indicazione unica sarebbe quella di smettere di guardare al mondo troppo in grande. La mente umana è fatta per essere locale e non globale. Solo a sapere separare il Paese e i suoi problemi, nel mio paese e nei miei problemi questi potranno tornare ad essere affrontabili. Perché in questo Paese e in questo mondo un uomo locale come sono io e come con ogni probabilità sei anche tu ormai non può più riconoscersi e non può più determinarsi e contribuire allo sviluppo comune. Per questa ragione la recessione non è di tipo economico, ma prima di tutto di percezione e di riconoscimento e successivamente di investimento civile.



Disorientati dalle mille informazioni e commenti - compreso questo! - seguiamo la soap opera a sfondo drammatico della crisi economica in attesa che sia passata la nottata.
La buona notizia è che ben difficilmente le cose torneranno come prima. La speranza è che ci si avvii a una cronaca dell'economia reale come l'unica economia possibile.

I sali e scendi delle notizie, come delle quotazioni, ci rendono abitudinari. Eppure i rialzi sono spesso pilotati da un mondo fatto di persone che fino a ieri con queste oscillazioni costruivano delle fortune fantamiliardarie e che oggi sperano almeno di continuare a camparci. Questa vita, tuttavia, si regge sulle speculazioni e sulle alterne fortune, per cui chi investe oggi per fare salire i numeri, domani svuota il salvadanaio, sperando di acchiappare più investimenti possibili dai pochi ottimisti e dai meno veloci a vendere.

A forza di un passo in avanti e due indietro, ci stiamo abituando a un cambiamento che avverrà inesorabile senza vere e proprie rivoluzioni, proprio come capita alla rana nelle mani del cuoco.
Se il cuoco prende la rana e la getta a cuocere nell'acqua calda, questa al primo contatto schizzerà fuori e farà di tutto per non farsi riacchiappare. Quando invece il cuoco la stende nella pentola piena di acqua fresca, magari in compagnia di altre sue simili, la rana si troverà a suo perfetto agio. Apprezzerà piuttosto il fatto che l'acqua diventi sempre più tiepida ed essendo il fuoco molto lento, l'animaletto si troverà bello e bollito, trapassato più o meno dolcemente senza mai accorgersi di dove si trovava e di quello che stava accadendo.

In modo simile il mondo occidentale non vedrà mai il giorno in cui si sarà passati da una cultura socio-economica ad un'altra.

A guidare la transizione ben difficilmente potranno essere scelte finanziarie, ma piuttosto di quella economia che è ancora imparentata con le sue matrici filosofiche; potrà essere la psicologia o la sociologia a dare una mano, ma mai i mercati.

Prima dovranno morire gli speculatori dell'apres moi le déluge, quelli per cui il mondo può affondare dopo di me, ma io devo guadagnare comunque sempre di più. Questi non potranno facilmente scomparire per un decreto politico o per un rivolgimento di popolo, quanto piuttosto perché il terreno si fa bruciato attorno a loro. Come recitava un vecchio film di Landis, Una Poltrona per Due, nulla può essere peggiore per un ricco che la prospettiva della povertà. Quando saremo tutti meno ricchi i più pesanti affogheranno affondando per il loro stesso peso.

Le malattie italiane del periodo sono facilmente individuabili e spesso stanno nello scarto fra quello che si ottiene per quello che si fa, in una prospettiva di civiltà molto prima che di economia.
  • «Mi si è chiesto nel passato di fare dei sacrifici personali per far sì che il paese intero diventi più civile e moderno, per il bene di tutti coloro che hanno investito in questo. Poi scopro che i frutti di queste rinunce sono confluiti nelle tasche di pochi che fanno entrare indiscriminatamente (ovvero senza "discrimine") clandestini da sfruttare, perché le persone civili non si farebbero sfruttare andando a distruggere le conquiste del mondo del lavoro». È la sindrome dei rifiuti urbani: chi ne produce di più li manda a casa d'altri e dice che gli altri sono incivili a non accettare. Crederemo a chi pensa il contrario quando porteranno i campi nomadi nei quartieri residenziali, invece che in quelli abitati da gente che deve confrontarsi ogni giorno con la propria speranza di sopravvivenza. Gli abitanti delle periferie non sono concittadini della Nazione, ma dello Stato trasversale degli abitanti delle periferie.
  • «Devo insegnare ai miei figli ad essere onesti quando poi il modello del vincente che scorgo dai vari scandali e gossip è quello del disonesto legale che può permettersi anche di prendere in giro i poveri coatti dell'onestà». Com'è possibile credere nella giustizia di questi magistrati e di questi avvocati e di questi politici? Meglio insegnare ai propri figli a rubare e magari anche a uccidere nella legalità per avere un futuro che ora è loro negato all'insegna dello sfruttamento giovanile dei tirocini, del precariato e delle leggi sul lavoro. Meglio non credere a questo paese dove non esiste certezza della condanna e, peggio ancora, non esiste certezza delle pene (che, in nome delle democrazia dei demagoghi, vanno tagliate perché troppo costose per il paese). Chi paga per l'indulto è lo stesso cittadino periferico che non ha i soldi per versare quelle tasse evase da ricchi e clandestini.
  • «Per tanti anni ci hanno detto che dobbiamo diventare il paese dei servizi e del terziario avanzato e, ora che c'è la crisi, con il ripatteggiamento di Kyoto stiamo scoprendo che eravamo il paese del manifatturiero… Allora non è vero che la produzione si fa nell'Est allargato perché il lavoratore italiano costa troppo caro?». Tutti i governi parlano di abbassare le tasse e se la cavano con qualche voce che incide poco nelle tasche ma molto nel portafoglio del paese. Le tasse che andrebbero tolte sono invece quelle sui lavoratori. Allora il lavoratore italiano costerebbe molto meno di quello dell'Est.
  • «Ma se togli le tasse dai lavoratori, dove li vai a prendere quei soldi?». Quello che l'automazione ha prodotto in questi ultimi decenni è la realizzazione di profitti generati, non dal costo della produzione, ma dalla domanda del mercato. Questo significa che ci sono molte cosiddette imprese che, grazie a programmi informatici o processi di mercato, realizzano guadagni da favola, molto superiori di fabbriche che impiegano centinaia o migliaia di dipendenti, senza occupare neanche un lavoratore in più di quelli che stanno attorno al padrone. Questi, e sono tanti, non pagano tasse e l'unico modo perché questo possa accadere sarebbe di tassare gli introiti reali. Nessuno è mai riuscito in tale proposito perché si ha paura che queste imprese vadano all'estero. E ce ne sono già che hanno fatto questa scelta, personaggi che vivono in Italia avendo il loro business all'estero. Uno stato forte - non pensiamo alle dittature, ma anche solo a paesi come Israele o il Giappone - introdurrebbe il dazio sui pre-lavorati e tasserebbe la ricchezza in maniera cospicua e non alla Valentino Rossi (cifre alte per noi, mance per loro). Personalmente sarei per l'esilio forzato degli impenitenti dalle ricchezze facili, perché se porti il lavoro fuori vai anche a fare il ricco là dove produci e non in un paese di cui sfrutti soltanto i servizi costosi per chi paga le tasse davvero. Questo naturalmente vale per molti liberi professionisti, ma anche qui si rende la vita difficile ai lavoratori a progetto, assimilati a notai, chirurghi e baroni vari che ci dicono persino di essere - poverini! - impossibilitati ad evadere. Un'altra alternativa molto più aggiornata ai tempi di quanto non siano leggi che risalgono a prima che l'Italia fosse una Repubblica fondata sul lavoro (come adesso non è più), sarebbe tassare l'automazione (dal robot, all'e-commerce, ai KMS dei call center, agli ERP come il SAP…) in ragione del full-time-equivalent che sviluppano. Pensate quanti soldi entrerebbero nelle casse statali!
  • «Ci dicono di non sprecare, quando il modello di vita è basato sullo spreco». Si pensi ai costi dei trasporti derivati dalla centralizzazione delle sedi delle società. Orde di incravattati managerotti e tecnici attraversano ogni giorno i cieli del paese per Roma o per Milano. Colonne di auto intasate di dipendenti che ogni mattina e ogni sera vanno e vengono dalle loro abitazioni sempre più extra-urbane per passare una giornata davanti a un computer per nulla diverso da quello che hanno in casa, quando potrebbero tranquillamente evitare ogni spostamento per fare lo stesso lavoro in remoto dalla propria abitazione. Esistono innovazioni tecnologiche, come gli ERP, ad esempio, che non hanno faticato ad entrare e altre come il telelavoro che non trovano il loro giusto sviluppo. Esistono sprechi che non si "devono" evitare. L'innovazione si fa anche cambiando i rapporti di lavoro. Lavorare per obiettivi significa riconoscere lo spreco del lavoro ad orario, invece che a risultati. Se sono in grado di ottenere gli stessi risultati lavorando di meno, perché valuti il mio lavoro sulle ore che mi costringi a fare spesso a prescindere dal mio operato? Lavorare di più, con meno ore e lavorare tutti. Un vecchio motto applicato oltr'Alpe, mai tanto valido come in questi momenti di cosiddetta-crisi.
Civiltà vuol dire comprendere che il lavoro è l'operato che un cittadino realizza a favore di altri cittadini e non il mezzo per generare del profitto fine a se stesso. Civiltà e potere sono termini antagonisti ed è quindi giusto che chi mira al potere non debba godere della civiltà. Queste sono le coordinate dell'unico mondo nuovo che molte generazioni dopo di noi potranno vedere al termine della lunghissima crisi che verrà.

Nel frattempo, alla luce di tutti i punti fin qui espressi che alcuni potrebbero ritenere bolscevichi e altri qualunquistici o reazionari, ma che sono consapevole che non verranno mai attuati, servirebbe una formula semplice, una per tutte per vivere alla meno peggio i giorni che ci si prospettano.

Credo che se dovessi dare un'indicazione unica sarebbe quella di smettere di guardare al mondo troppo in grande. La mente umana è fatta per essere locale e non globale. Se anche è vero che ci sono solo 6 punti di prossimità fra me e il presidente degli Stati Uniti, è anche vero che una volta arrivato a lui non avrei proprio nulla da dirgli. Ho bisogno invece di un ecosistema sociale intorno a me sereno; di una vita culturale e affettiva ricca con le persone che mi sono vicine; di potermi rappresentare mentalmente un ambiente a me noto e familiare; e di vedere l'origine e la fine del mio operato e del mio lavoro per sapere chi servo ed essere conosciuto per quello che ho fatto per il mio prossimo.

Chiamo localismo questo modo di pensare, ancor prima che federalismo. È la mia gestalt, il campo sociale nel quale mi muovo a dare ragione della mia esistenza e a permettermi di governare la mia vita in comune.

Solo a sapere separare il Paese e i suoi problemi, nel mio paese e nei miei problemi questi potranno tornare ad essere affrontabili. Perché in questo Paese e in questo mondo un uomo locale come sono io e come con ogni probabilità sei anche tu ormai non può più riconoscersi e non può più determinarsi e contribuire allo sviluppo comune. Per questa ragione la recessione non è di tipo economico, ma prima di tutto di percezione e di riconoscimento e successivamente di investimento civile.