28 dicembre 2011

La fine delle e-mail aziendali

Le lettere, dalla carta al monitor
Esistono dei protocolli Internet che hanno fatto la storia e che oggi praticamente non esistono più. In quanti si ricordano ancora del Telnet che caratterizzava il modo di consultare la rete e di comunicare dei primi tempi? Quanti altri poi sanno che cos'era il Gopher, il primo "Google" e del suo client chiamato amorevolmente Veronica che costituiva la risorsa principale per entrare nelle università e negli archivi di ricercatori? Altri, come FTP o IRC, vengono ancora utilizzati anche se a sapere che esistono e a che cosa servano sono proprio in pochi.
Viviamo in tempi per cui, alla terza generazione che quando dice "Vai su Internet" intende "Apri Google", sta succedendone una quarta per cui Internet sono alcuni suoi prodotti, primo fra tutti FaceBook e Skype o Messenger.

Frequento la rete delle reti dal '93, assieme ai primissimi browser che si chiamavano Mosaic, Cello e Lynx (quest'ultimo per gli ambienti a carattere come il DOS). A quei tempi la posta elettronica si prendeva in Telnet o più praticamente con Eudora. E stiamo parlando di neppure vent'anni fa.
Se risaliamo nel tempo, quando ero piccolo e per almeno trent'anni ancora, si usava la posta cartacea; anche perché la maggioranza delle persone all'epoca non aveva telefono. Allora mia madre e la sua si mandavano una lettera all'anno o poco più e la loro comunicazione, a parte la villeggiatura settembrina, finiva lì. Con i fratelli le cose erano ancora più rare e non di rado assenti. Più facondi erano i pochi colti del dopoguerra che usavano maggiormente la posta (i rapporti fra colti e analfabeti oggi si sono ribaltati anche se i colti conoscono molto meno di allora la loro lingua e il suo uso è spesso distratto, impreciso, maleducato nei confronti del destinatario).

Gli snob nostalgici della piuma d'oca e della carta profumata dimenticano troppo facilmente che ai tempi in cui ha cominciato a diffondersi la posta elettronica, le lettere le scrivevano al massimo i fidanzati (e la burocrazia, ovviamente) e che il postino, a parte la pubblicità, consegnava soprattutto cartoline d'estate e sotto le festività. 

Qualcuno poi osservò a ragione che l'e-mail ha permesso per molti un ritorno alla scrittura e nello specifico alla comunicazione scritta. Era proprio così: la gente re-imparava (e spesso apprendeva ex-novo) a scrivere e a scriversi. Per un po' di tempo, fra BBS e e-mail si è riscoperto il piacere di scrivere.

Messaggi in azienda
Nel giro di una decina di anni la mia cassetta postale, l'inbox, era piena ogni giorno di messaggi di amici noti e non di rado nuovi e sconosciuti.
Ora di e-mail ne ricevo un'esagerazione, ma si tratta per la maggior parte di spam e comunicazioni commerciali. Da questo il disamore per questo mezzo replica in fondo quello che decenni fa aveva colpito le lettere cartacee.

In azienda le cose non sono poi così diverse, anche se si verificano con lo stesso ritardo con cui sono iniziate: dalle mie prime e-mail private a quelle aziendali ufficiali sono passati circa 7 anni. Da quando è iniziato il grosso fenomeno dello spam ad oggi che il cattivo uso della posta elettronica in azienda ha reso la stessa inefficiente, rallentando le attività invece di facilitarle, e quindi una forma di spam autorizzata, stanno per passare gli stessi anni.

I vizi della posta elettronica aziendale sono moltissimi: a partire dagli inoltri spietati e dalle copie per conoscenza a livello esponenziale, di una continua catena di sant'Antonio, per proseguire con la superficialità con cui si allegano documentazioni senza valore per gran parte degli interessati senza fare il benché minimo sforzo per sintetizzare il contenuto o fornire un contributo personale sullo stesso che porta il destinatario ad ignorarlo, finendo con l'impossibilità di gestire gli archivi documentali che sono passati dal file system (le cartelle sul disco) all'inbox sempre più difficile da consultare o da permettere ricerche.

Quello che sta accadendo nel mondo per così dire "consumer", il passaggio a delle piattaforme integrate al posto dei protocolli separati, è tutto sommato un ritorno al passato. Le prime esperienze di comunicazione elettronica, a parte i membri delle università, avevano luogo nelle BBS (Bullettin Board System da noi ribattezzate "bacheche elettroniche") che già allora svolgevano buona parte dei servizi forniti da Facebook e similari in maniera volontaristica e del tutto economica anche se allora non ci si poneva problemi di privacy (il mondo era più semplice allora).

Le BBS in azienda
Bisogna dunque rassegnarci a rinunciare alle e-mail in azienda? Proprio ora che eravamo riusciti ad insegnare ad usarla? Il fatto è che l'abbiamo insegnato male: da un lato, si intasano le caselle di tutti e si fa perdere un gran tempo agli impiegati con la comunicazione verticale; dall'altro, chiunque abbia sperimentato l'esperienza di porre quesiti alle aziende tramite e-mail, sa che dopo aver atteso inutilmente risposta, dalla volta dopo ha imparato ad insistere al telefono. Il fatto è che anche che gli utilizzatori maneggiandola impropriamente hanno customizzato la posta elettronica stessa, trasformandola spontaneamente in un mezzo di gruppo e di condivisione (proprio tramite CC, BCC, inoltri, citazioni, allegati condivisi…).

Eppure, nonostante questo adattamento spontaneistico, bisogna prepararsi ad una faticosissima separazione: separarsi dalle abitudini è così difficile che si dice che dopo che hai sciolto la fune che lo lega al palo, l'asino continua a camminare in tondo, calpestando il solco fatto negli anni.

Perché mai allora dovremmo passare ai wiki, ai social network, al messaging, al pairing e al micro-blogging?
Le risposte principali sono di due tipi.

La prima è che si tratta dell'evoluzione delle Intranet e della comunicazione interna nel senso della collaborazione e della destrutturazione organizzativa e gerarchica con una spiccata inclinazione alla condivisione delle conoscenze, dell'apprendimento, dell'innovazione e soprattutto dei processi e del workflow.

La seconda e più importante è l'accorciamento delle distanze fra cliente e dipendente e dal trasferimento di una mutua appartenenza, al punto che il cliente potrà diventare il migliore collaboratore dell'azienda (come preconizzato una dozzina d'anni fa da David Siegel in Futurizza la tua impresa) e il dipendente sarà sempre meno burocratico e sempre più fornitore di servizio o consulente. Aziende all'avanguardia come Apple praticano questa filosofia addirittura da prima che esistesse Internet; non poche delle ditte nostrane falliranno prima di aver capito come questo principio può funzionare.

Bisogna però evitare di ripetere gli errori del passato: il passaggio alle piattaforme va accompagnato, va insegnato non solo nei tecnicismi dei menu e dei comandi, ma nei modelli di comportamento e di organizzazione. Un paziente lavoro che richiede, non settimane o mesi, ma anni per essere condotto in porto e quindi impone di accorciare i tempi e di cominciare subito prima che sia troppo tardi.

Quando si avrà imparato ad usare correttamente le piattaforme e dopo che avremo abbandonato la posta elettronica con il suo spam, allora sarà il momento in cui si riprenderà ad utilizzarla, questa volta per farci le cose per cui funziona meglio, ovvero le stesse per cui un tempo si ricorreva a carta, busta e francobollo (forse si dovrebbe far pagare un francobollo ad ogni invio per spingere le persone a fare un uso più saggio del mezzo).

L'organizzazione deve imparare a condividere fino a che la condivisione non insegnerà alle persone quale sia l'organizzazione più efficace, azienda per azienda, istituzione per istituzione: il cambiamento trasforma chi cambia in un modo inedito, diverso da quello pianificato, una sorpresa dei nuovi tempi che può nascere dalla palude e dalla nebbia che si diceva non avere fine.

02 dicembre 2011

Il portale sostenibile

Ripensare il portale web oggi, nell’era del wiki, della condivisione e della collaborazione innovativa, con parole quotidiane scevre da effetti speciali ipertecnologici.

Gran parte delle società e delle istituzioni hanno già dei loro siti. Quindi si fanno soprattutto modifiche o nuove release di siti per proseguire un discorso già iniziato da poco o da molto tempo. Quella che avete fra le mani è una guida turistica che vi dice: “lasciate pure le cose come stanno, ma trovate un altro modo per farle funzionare”. Il più delle volte non si tratta di aggiungere, ma di tagliare, di semplificare indirizzando ad obiettivi strategici e collaborativi, incitando alla creatività e all’intelligenza, all’innovazione saggia da perseguire con temperanza. Il portale come il punto di partenza di incalzanti e innumerevoli circoli virtuosi per discorsi infiniti nella semplicità quasi frugale di un ritorno alla convivialità.

E-Book disponibile su lulu.com

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Location:Corso Regio Parco,Torino,Italia

11 ottobre 2011

Jobs non fu un genio

La parola più abusata dalla scomparsa di Jobs è stata "genio". Ma a ben guardare i geni della storia diretta e indiretta di Apple sono stati ben altri.
Intanto Wozniak che senza saperlo inventò il computer personale; poi Engelbart, Key e tutto lo Xerox Park che senza saperlo inventarono tutta l'informatica per come hanno imparato a conoscerla i nostri figli; Ian Raskin che senza riconoscerlo inventò il Macintosh o Jonathan Ive che pensando solo al bello inventò le forme di Apple per come ci hanno sedotto.

Di geni Apple si può dire che non ha mai fatto a meno: ne ha passati decine se non centinaia, migliaia se aggiungiamo presunti geni come Stallman, che nella loro vita non hanno saputo fare che parole e stupidaggini, ma Steve Jobs non era fra questi. Di quelli come lui i nostri anni - non solo Apple o le tecnologie - ne ha avuto solo uno. E il nome che merita è un altro.

Con tutte le sue ragioni e i suoi torti Steve Paul Jobs è stato un Profeta.


Come Mosé o come Maometto vedevano il senso della creazione e sapevano essere la voce del loro Dio e soprattutto sapevano fare vedere e capire il suo disegno agli uomini semplici dei loro tempi, così Jobs seppe mostrare il futuro all'incrocio dell'arte libera e del potere tecnologico e soprattutto mettercelo in mano e farcelo usare come il fatto più spontaneo e luminoso che potesse esserci per noi. Come canta Jovanotti "ogni cosa è illuminata, ogni cosa nel suo raggio è in divenire".

Questo è stato il profeta Steve, questo ci ha regalato.

Non chiamiamolo più genio, ma Profeta: questo sarà per sempre il nome con cui dovremo ricordarlo!

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26 luglio 2011

Oltre il mito del controllo

L'Oltreuomo (Viaggiatore al di sopra del mare delle nuvole, 1818 circa, Caspar David Friedrich, Amburgo, Kunsthalle, Olio su tela"E da ultimo c’è la morte. È comprensibile che in una civiltà che separa la mente dal corpo, si debba o cercare di dimenticare la morte o costruire mitologie sulla sopravvivenza della mente trascendente. Ma se la mente è immanente non solo nei canali d’informazione ubicati dentro il corpo, ma anche nei canali esterni, allora la morte assume un aspetto diverso. Il ganglio individuale di canali che io chiamo ’me’ non è più così prezioso perché quel ganglio è solo una parte di una mente più vasta. Le idee che sembravano essere me possono anche diventare immanenti in voi. Possano esse sopravvivere - se sono vere. (dal libro di Bateson: "Verso un’ecologia della mente", Adelphi, pag. 484)

La genesi scientifico-linguistica delle pratiche di controllo

Viviamo una vita improntata sul predominio del Significato, ma anche sulla strumentalizzazione del Significante. La dialettica tutta saussuriana che vede i due quasi momenti dell’espressione quasi in opposizione, in questi anni più che mai rivela come dominino due aree di governo del tutto complementari e profondamente affini.

Quella del Significato da intendere come “contenuto”, obiettivo finale del discorso che l’ermeneutica ha impoverito della sua univocità: “quello che si dice” non ha una sola possibile interpretazione, anzi sempre più spesso perde di credibilità (pensiamo al contenuto dei messaggi politici ed economici nei nostri giorni).

Allo scarto fra verità ed apparenza che abbiamo visto essere nel regno del significato fa da contraltare quello tutto formale dell’apparenza del significante, dove a detrimento della sacralità del simbolo, originariamente inteso come la concentrazione di più pensieri in una forma in grado di contenere molteplici discorsi e filoni interpretativi, oggi è l'espressione di un relativismo improntato, non dagli approcci teorici, ma dalla moda intesa come tendenza di comportamento e influenzamento dalle opportunità offerte di soddisfare piaceri e compiacimento personale.

In un simile contesto diventa difficile sostenere che il setting terapeutico possa essere portatore di univocità interpretativa come hanno da tempo più o meno direttamente sostenuto la maggior parte degli approcci, da quello psicanalitico a quelli cognitivi.

Bene o male queste strade si basavano sulla verifica della concomitanza fra il livello di realtà e quello della rappresentazione dell’individuo. Apparentemente decontestualizzati dai riferimenti moralistici, la maggior parte delle psicoterapie non ha potuto evitare, nel momento in cui si trova ad esprimere una valutazione sullo scarto fra realtà e rappresentazione, di esprimere giudizi o comunque valutazioni in termini di critica della correttezza esistente in questo scarto: “Tu ti vedi così, ma in realtà sei cosà. Fai le cose in questo modo, ma dovresti farle in quest’altro. Se fai così allora sei uno cosà”.

Questo atteggiamento frequentemente declina in una sentenza diagnostica, un meccanismo dilabeling, di etichettatura o di stigma (per usare i termini di Goffman): “Sei un depresso, sei un border-line…!”

In questi casi il significante è estremamente strumentale: la parola non determina una “cosa” e neppure un “concetto” o una “categoria” (nel senso kantiano), ma una procedura, una configurazione di connotazioni definitorie.

Per semplificare, possiamo immaginare che sia come in campo medico, dove c’è una differenza fra delle macchie sulla pelle, il morbillo e la sindrome psorica: il primo è un “oggetto” dai correlati fisici, il secondo un nesso causale fra oggetto e agente (il virus del morbillo), mentre il terzo è una concomitanza di fenomeni selezionati a cui gli osservatori attribuiscono delle affinità e una comunanza di valore quasi statistico e comunque decisamente arbitrario.

Nel campo della sofferenza psicologia dai medici definita cacofonicamente psicopatologia ci si muove decisamente nell’ultimo ambito, in quanto non esistono oggetti circoscritti con un rapporto uno a uno fra cosa e parola e neppure fattori eziogenetici univoci. Questo vuol dire che potremmo creare tante sindromi quante sono le fenomenologie selezionabili e collazionabili sotto un unico termine da un osservatore con potere significante.

Ancora una volta, la superstizione su cui muovono queste prassi di potere “scientifico” è quella di potere esercitare un controllo sull’evento clinico o banalmente comportamentale. Di fatto per parlare di scienza occorre, seguendo il protocollo galileiano, potere riscontrare la ripetitibilità dei fenomeni e soprattutto la capacità preditiva, oppure, sotto il profilo popperiano, essere suscettibile di falsificazione del modello di spiegazione. E non è questo il caso. Si può quindi parlare più di “sapere” che di “scienza”, dove con il primo termine si intende una pratica di potere, come viene fatto dire al Nietzsche di Foucault che “Il sapere non è fatto per conoscere, ma per prendere posizione”.

Il Bisogno di Controllo

Fra la macchina significante (Lacan) del modello medicale psicopatologico, dal quale non sono esenti pratiche varie a partire proprio dalla stessa psicanalisi, e l’ipnosi ericsoniana sotto il profilo della gestione del potere passa un vero e proprio oceano.

Nonostante questa differenza, neppure Erickson è esente da meccanismi di giudizio decisamente forti. Ne sono esempi i seminari curati da Jay Haley dai quali escono fuori delle visioni spesso convenzionali sugli indirizzi insiti nell’individuo e nella coppia, quasi che avessero un valore universale che invece anche solo sotto il profilo antropologico sono facilmente smentibili. Tuttavia, fra l’esercizio del potere di una diagnosi dell’apparato stigmatizzante della psicopatologia medica e quella dell’uomo comune di Erickson, sul piano dell’onestà c’è un’enorme differenza a favore di quest’ultimo.

Il pensiero debole dell’ermeneutica della fine del secolo scorso e ancora di più il modello di società liquida descritto più recentemente da Bauman hanno da tempo attutito la zampata dell’orso terapeutica a vantaggio di pratiche più fluide, provvisorie, flessibili, deboli, paritetiche…

È anche vero, tuttavia, che la richiesta di diagnosi forti sta tornando imperiosa spesso da parte degli stessi clienti che sentono il bisogno di trovare un termine univoco per quello che si trovano a vivere, evitando che assuma i connotati sfuggenti che tutto sembra dover presentare in questo cambio di millennio. La gente vuole dare un nome a quello che prova e pensare che quelli che glielo danno almeno conoscano di che cosa si tratta: “Se anche devo morire è fondamentale che sappia di che cosa”, è l'autoritario e saccentemente presuntuoso modello dei telefilm del dr. House. È, cioè, il paziente stesso che spesso richiede un controllo, l’esercizio di una polizia delle emozioni che eserciti un’autorità di contenimento sull’esperienza vissuta.

Dall’altro lato, il terapeuta sente il bisogno di un apparato di significazione nel proprio bagaglio professionale per potere esercitare l’autorevolezza che gli permette di essere credibile e di fatturare per una prestazione fondata sulla certificabilità anche se del tutto soltanto letteraria (tanto le sfumature il cliente non le conosce). Anche il docente, il formatore, l’insegnante di materiali psicologici sente il bisogno di esercitare questo controllo garantito proprio dall’apparato significante fornito da vere e proprie metafore scientifiche. È il caso del connubio fra psicologie e neuroscienze, come dice la testata della rivista, fra “Mente e Cervello”, dove la mente è un fenomeno concettuale filosofico e psicologico, mentre il cervello è l’oggetto studiato dai causalisti anatomo-fisiologici. Questo mix è del tutto aporetico perché due modelli in profondo conflitto di moventi, di metodi e di approdo come la fenomenologia e il causalismo non possono essere fatti incontrare per poi dire che sono la stessa cosa.

Dal controllo alla transe

Insomma, esiste una scelta politica di fondo che chi esercita una pratica di aiuto, sia essa terapeutica o di counseling, deve agire a monte del proprio operato nei confronti del paradigma del controllo.

Scegliere sei vuole costruire una storia con un suo sviluppo e una sua morale assieme al cliente/paziente o se si vuole attribuire un significato deterministico all’esperienza dell’altro. La prima strada è certamente più impegnativa e gravata dalle incertezze esistenzialiste, laddove la seconda è certa, autorevole, quanto arbitraria e autoritaria.

Una prima via democratica, come accennavamo, è quella delle pratiche non direttive, dalla terapia del counseling orientato al cliente di Carl Rogers, alla pratica dei costrutti personali di George Kelly, fino all’ipnosi non direttiva di Milton Erickson.

Una seconda strada è quella del modello della black box tipico, sia della fenomenologia sistemica e della terapia della famiglia dall’MRI in poi, che della NLP, la programmazione neurolinguistica tutte legate dalla teoria autopoietica e costruttivista. Questi approcci si fondano sull’ignoranza programmatica operativa a proposito dei contenuti dell’altro.

Tacciata per questo, soprattutto dai contenutisti come gli psicanalitici, di superficialità, per i suoi sostenitori è piuttosto una pratica di libertà, di rispetto del mondo, dei valori e dei significati dell’altro. Anche in questo approccio esiste una qualche forma di controllo nella gestione del setting che prevede comunque un certo esercizio della valutazione e del giudizio. In questo caso, infatti, io, fornitore d’aiuto, non devo per questo fatto arrogarmi il potere di attribuire un significato, di valutare e in ultima analisi di giudicare o etichettare la persona che viene da me. Lavoro solo sulle sue (il Bilancoamento Dinamico parlerebbe delle "nostre") modalità in funzione di un cambiamento adattivo il più vicino possibile alla richiesta che mi viene espressa.

Spesso la trasformazione, soprattutto quando felicemente riuscita, può non venire neppure percepita dal destinatario se non per una progressivo venire a mancare della domanda di terapia. È molto frequente la debole attribuzione al terapeuta o al counselor dell’efficacia, spesso riconosciuta al cliente stesso, a fattori ambientali o al caso. Queste pratiche usano il controllo esclusivamente sull’apparato tecnico e sugli utensili metodologici di natura frequentemente strategica utilizzati dal counselor.

Esiste infine una terza via che, pur sviluppandosi sul solco delle due strade appena presentate, dilata ulteriormente l’apporto del terapeuta. È un approccio che si fonda sulla condivisione degli stati di conoscenza messi in atto nel setting, anche se in questo possono venire evocati paradigmi del tutto eterogenei. Gli strumenti sono intercambiabili ed eclettici come pure le teorie di riferimento che da metro di giudizio diventano tecniche, utensili, rinnegabili nel momento stesso della loro affermazione.

La dilatazione e la contrazione dello stato di coscienza e la delega della funzione di attore terapeutico ad un’egida assente, sia essa l’inconscio, uno spirito guida, presenze angeliche, sia come oggetto di credenza, sia come puro e semplice stratagemma retorico sono le caratteristiche portanti di questo approccio utilizzato da consulenti che il più delle volte fanno riferimento a pratiche esoteriche o new age, sistematizzato e teorizzato dal Bilanciamento Dinamico (DBM).

In questo caso il paradigma del controllo ha decisamente abdicato la propria funzione al punto, non solo di scomparire, ma persino di essere manipolato apertamente e dichiaratamente “Ti dico che è così, ma non lo so: penso solo possa essere utile farlo, ma se non ci convince possiamo fare esattamente l’opposto. L’importante è che riusciamo a sostenere una relazione soddisfacente e proficua che prosegue al di là del termine della seduta e dell’uscita dal setting”.

Il terapeuta ignora le origini, se ne frega della verità e sa che non esiste una sola realtà univoca. A lui non importa se il cliente tornerà e come andrà a finire, anche quando propone un percorso o invita a un ritorno. Confida ardentemente sul destino che guida gli incontri e le separazioni. Il percorso terapeutico è aleatorio, un costruirsi di senso da percorsi stocastici, come le forme scaturite nei cieli dai voli degli storni. Ma non è inconsistente e apparente, non è puro significante: si esprime al meglio nel concetto di mindfullness.

La pienezza di un’esperienza fondata sui movimenti della coscienza in accoppiamento strutturale tipica della relazione di aiuto, carica di autorevolezza, quanto del tutto scevra di autorità e di procedure di controllo sono le caratteristiche di questa strada che porta ad una relazione d’aiuto scalza, il cui svantaggio principale è il rischio di non essere certificata e quindi di essere oggetto di facile appropriazione indebita, come tutte le forme di democrazia, che più si fanno avanzate più sono fragili e possono far conto solo sull’onestà e sull’integrità di chi la esercita e di chi ne beneficia. Una strada insomma che richiede la maturità e la saggezza cui saremo costretti ad approdare in questo terzo millennio, se non vogliamo che l’intera specie umana scompaia meritatamente.

È la via terapeutica dello Zarathustra di Nietzsche, “una corda tesa fra l’animale e il superuomo, una corda sopra un abisso”; quello della coscienza che sta fra noi e la mente dell’universo.

18 luglio 2011

"Casta": L'Italia peggiore siete voi!

C'è da domandarsi come possano marci gabellatori come il venexiano a Roma, ma anche l'ipocrita Agrippa meneghino dare lezioni di morale e d'onestà in giro quando il puzzo di lercio emana dal palazzo più soffocante che l'intera spazzatura partenopea!!!
Che i boiardi capitolini fossero una casta è cosa nota da tempo. Che ci fosse il marcio dell'ignoranza e la falsa coscienza del moralismo del tossico o del fedifrago virtuoso lo si è mostrato a piene mani. Che la rappresentatività indiretta fosse una forma di oligarchia dispotica mascherata da fantomatica democrazia non è stato mai abbastanza ripetuto.

A questa consapevolezza di fondo si aggiungono i fioretti provenienti da un vendicativo rappresentante della vessatissima quanto dilagante categoria dei precari: SpiderTruman (Link a Facebook, Blogger, Twitter). Truman difficilmente ha a che fare con il presidente americano o con lo scrittore Capote e Spider non centra con le macchine veloci, ma con il ragno, forse marveliano, ma anche solo aracnoide. Dalla figura retorica esce una realtà fittizia come il Truman Show di cinematografica memoria, dove il nostro faceva un vita fasulla fatto convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili, mentre dietro ogni angolo si nascondeva menzogna e squallore; ragno anche perché si infila negli interstizi del palazzaccio dove la Società che pubblicizza di parlare un'Italia migliore non dovrebbe mai fare arrivare la corrente elettrica.

Ladri che accusano ignoti dei propri stessi furti, prebende su tutto, dai cellulari ai viaggi, estese a parenti e amici con pié di lista esorbitanti dove è impossibile non immaginare una complicità sul ricavato…

Un quadro che ricama sui dettagli lasciandoci fantasticare sul fatto che di dettagli ce ne possono essere un'infinità in tutti gli angoli del palazzaccio dove qualche ragno riesce a intrufolarsi finché non arriverà la ciabatta del corrotto a spiaccicarlo nell'indifferenza generale.

Se questi sono i precari, caro Venexiano a Roma, a fronte della tua stupida boutade sono loro a dimostrarti senza timore di smentite o di abbagli che inequivocabilmente "Siete VOI quell'Italia peggiore".
L'Italia peggiore siete Voi! Voi! Voi!

…e quel che resta di sano in questo paese non può far altro ormai che girarvi le spalle e, proprio come il "brunettide offeso", uscire dal palazzo una volta per tutte, ma non per salire sull'Aventino: per chiudervi dentro una volta per tutte, spedirvi nell'inceneritore assieme al vostro fetore e ricominciare finalmente da capo.

Puliti, finalmente!

17 luglio 2011

Pareto e la povertà degli italiani

La cosiddetta legge di Pareto, nelle sue interpretazioni, recita che l'80% delle ricchezze è in mano al 20% della popolazione (e che l'80% della povertà è concentrato nel 20% delle persone), ma anche che l'80% delle attività pregiate viene realizzato dal 20% della popolazione lavorativa.

Ci sarebbe potuto anche stare, se almeno il primo 20% avesse un qualche rapporto con il secondo: invece il 20% che innova, che produce, che cambia, che dice la verità, che crede nelle persone… per l'80% della popolazione fa parte dell'80% che viene derubato dal 20% dei disonesti che hanno l'80% della ricchezza.

Non è demagogia; è matematico, perché nessun onesto che si possa veramente ritenere tale può permanere con la coscienza pulita in quel primo privilegiato 20%.

Purtroppo è anche vero che il 20% della popolazione esercita l'80% del potere, dell'arroganza e della violenza, ma…

…ma è vero anche che il 20% della popolazione ha fatto l'80% della rivoluzione francese, dove il 20% aristocratico che a suo tempo aveva l'80% delle ricchezze ha nutrito con le proprie teste l'80% del prodotto della ghigliottina.

19 giugno 2011

Il Bosone di Dick

Molte, troppe concomitanze ci fanno osservare come questo fine di civiltà possa essere caratterizzato dall'accelerazione. L'acceleratore di particelle che dovrebbe portarci alla manifestazione del cosiddetto Bosone di Dio diventa il simbolo stesso di questa dinamica. Prima Barbault che descrisse la grande congiunzione che, iniziata negli anni '80 e in procinto di chiudersi nel 2012 e poi più di chiunque altro chiara e spietatamente logica, Lisa Morpurgo vide l'accelerazione dei cicli planetari passare dalla velocità di Mercurio, gli anni in cui scriveva, a quella repentina lunare verso un rivolgimento del sistema stesso.

Se dovessimo usare una metafora, sarebbe quella di un uragano, un ciclone che si vede proiettati dentro il suo occhio attraverso il vortice a spirale sempre più veloce. È un po' quanto accade alle particelle che nella pista del CERN devono essere portate a velocità di rottura strutturale per dar vita a quella che René Thom chiamava catastrofe strutturale.

Diversamente dal linguaggio comune, in matematica la catastrofe è una trasformazione della struttura in maniera discontinua rispetto agli stati del suo cambiamento precedente.

Come un nastro di Möbius, ad un certo punto e senza gradualità quello che è interno si ribalta, come una federa da dentro a fuori, e diviene esterno.

La nostra realtà potrebbe, come in un racconto di Phil Dick, non farci neppure rendere conto del cambiamento e ribaltarsi nella parallela.

Senza neppure accorgercene ci troveremmo improvvisamente e angosciosamente estranei a noi stessi. Dobbiamo conservare in noi stessi la spiegazione di questa possibilità, la chiara mente, la bodhicitta che ci permette di essere presenti nella continuità.

Altrimenti non ci rimane altro destino che un'anomia eonica.


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13 giugno 2011

Il Windows che verrà

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A fronte di un'eccitazione diffusa per quello che ci ha fatto vedere con la nuova interfaccia per Windows 8, Microsoft ha gettato nello sconcerto, nella rabbia furiosa e talora nella disperazione intere orde di sviluppatori certificati che per arrivare dove sono arrivati hanno speso fior di quattrini e anni e anni di gavetta quando ha fatto loro sapere che tutto quello che hanno imparato e comprato potranno buttarlo nel… cestino.

Windows 8, infatti avra delle librerie (chiamiamole pure API) tutte nuove e userà dei linguaggi meno potenti ma piu universali (sulla falsa riga del WebOS di Palm) come JavaScript e soprattutto HTML5.

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Quest'ultimo è diventato famoso soprattutto da che Jobs lo ha indicato come il successore di quel Flash di Adobe che Apple ha sbattuto fuori dalla porta dei suoi iPhone e soprattutto iPad. Si tratta di un linguaggio per gestire i contenuti multimediali nei siti, ma nessuno vieta di usarlo come linguaggio di programmazione e Microsoft in Win8 lo ha scelto per la gestione dell'interfaccia così innovativo.

Quello a cui un tale cambiamento ci deve fare riflettere non è tanto quello che dovranno fare gli sviluppatori per programmare su Win8, ma piuttosto se Win8 sarà veramente il successore di Seven.

20 maggio 2011

Quotidiano Piemontese: kermesse pubblica di presentazione

Mercoledì 25 maggio dalle ore 18.00 alla Fnac di Torino in via Roma si svolgerà la prima presentazione ufficiale di Quotidiano Piemontese. Presenti, alla Fnac e in collegamento da altre parti d’Italia, Vip del mondo Internet discuteranno con i fondatori e con la redazione di Quotidiano Piemontese.

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Location:FNAC - via Roma, 56 - Torino

28 aprile 2011

L'Ufficio fra le Nuvole

Leggi l'articolo originale completo di immagini su QuotidianoPiemontese nella mia rubrica UserFriendly

Alzi un dito chi non ha ancora mai sentito parlare di Cloud Computing? … Mi sembra di non vedere così tante mani alzate. Ora proviamo a verificare quanti hanno capito di che cosa si tratti. In questo caso di mani ne vedo ancor meno.


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La storia delle nuvole (Cloud) dove si troverebbero i computer ve la sentirete raccontare in tanti modi. In effetti è un prisma che ha più facce, tre delle quali sono le principali: quella tecnica, quella commerciale e quella dei servizi.

Innanzitutto vi troverete in giro un mucchio di letteratura che riduce la questione al puro ambiente tecnico in ultima analisi paragonabile a quella che fino ad oggi si era soliti chiamare Server Farm, una batteria di risorse di calcolo e soprattutto di archiviazione come quella di Google. Non è un caso, infatti, che proprio le società maggiormente dotate di questi apparati in ragione del loro preesistente business, come appunto Amazon o Google, siano state le prime a sviluppare una propria idea di Clouding. Ma allora perché non chiamarla Server Farm?

Perchè c'è di mezzo una rappresentazione di risorse sfumate eterogenee e in parte non-proprietarie che costituiscono questo ecosistema-nuvola al quale i dispositivi di tutti attingono e contribuiscono. In realtà la cosa non sta andando in questa direzione, almeno non per tutti: molti non apprezzano condivisione e biunivocità, prediligendo un sano sistema di scambio commerciale lineare e unilaterale, fidelizzante. "Tu sei nel mio Cloud" diranno presto Microsoft, Apple, HP e magari un giorno anche i più aperti come Google.
Ma allora che differenza c'è in questo aspetto commerciale-sistemistico con i vecchi terminali (che sarebbero i nostri computer), i NetPC di Larry Allison (e poi lo stesso Gates), o iTunes e Amazon? Una certa maggiore misticanza aleatoria che connota la caratteristica della proposta - appunto - commerciale dei "Clouders".

C'è poi una terza variante, che è quella che piace a me e a quelli che la pensano come UserFriendly.
Il Cloud può esaltare il dispositivo che usiamo nel momento stesso in cui ce ne rende indipendenti. Questo sarà presto chiaro a chi usa la musica. Oggi se hai un iPhone, un iPod, un iPad e un computer e vuoi condividere la stessa musica dovrai allinearli ogni volta e se te ne dimentichi, alla fine non saprai più dove si trova quello che hai voglia di ascoltare. Se poi si deteriora l'archivio sono fatti tuoi. Avendo tutta la tua roba nella nuvoletta il problema non si pone più.

Bello, vero?
…A ben guardare, nelle pratica mica tanto!



24 aprile 2011

La ricerca della Bellezza

Fra le tante virtù, la Bellezza è forse la meno nobilitata, ma certo la più ricercata. È quella cui il potente e il ricco maggiormente anelano impadronirsi il tempo sufficiente per non vederla cambiare, un po' seguendo la stessa logica per cui il violento desidera sfregiarla.

Il giovane desidera esaltarla, simulandola, mascherandola, accentuandola per venderla meglio, per sentirsi qualcuno, per comprarsi con essa una quota a parte di potere, una scommessa sul domani; e poi, quando l'età prende piede, anche lui non si rassegnerà al destino e ne vorrà comprare una parte in più presso stregoni antichi e moderni armati di creme e bisturi.

Le civiltà si fondano e maturano grazie ad altre virtù come il coraggio e l'integrità, ma poi alla loro decadenza si adagiano a comprare bellezza e piacere.

Quale bellezza può esserci in una molle proprietà orgiastica? Che bellezza può essere quella dissimulata, comprata, pagata fra satiri politici o accademici, fra capitalisti, latifondisti di persone, laidi tronfi dei materassi di denari e dell'arroganza di "posso e voglio"?

Non certo quella di cui cantano poeti e filosofi, psicologi e mistici. Quella Bellezza che manda in estasi i santi come Giovanni della Croce o Teresa d'Avila, ma anche quella che ha ispirato la Venere dalle Acque o l'altero David.

Insomma, il fatto che della bellezza venga fatto un uso squallido non esaurisce la grande virtù della "Bellezza". Non di meno, la virtù altrettanto importante sta in chi la guarda. La Bellezza è infatti prima di tutto una condizione interna all'osservatore capace di coglierla e di restituirla come proiezione dell' "oggetto" ammirato.

La Bellezza è una capacità che è dentro di noi, prima che in un tramonto, in un fiore, nelle vie di una città, nel suono del silenzio o nei tratti armonici e caratteristici di una creatura umana.

Per questo la bellezza che attira il politico, il ricco, il primario, l'accademico o il potente proietta nella desiderata e nel desiderato le doti estetiche della sua anima; e la volgarità che spesso trova fuori di sé mostra a tutti quanta volgarità sia dentro di sé.

Poveri di spirito, molti uomini e molte donne dei nostri anni ridono e dileggiano discorsi simili. Rimandano all'invidia di chi non può, banalizzano il bello come un desiderio valido per tutti, pensano che ci siano classifiche: il divo più bello, la stella più desiderata. L'universalità di una tale superstizione presume che il "volgo" abbia un'idea comune di quello che è bello: per questo una tale virtù è "volgare" per principio stesso.

Chi consulti un sito pornografico scoprirà che è quasi infinito il numero di donne e uomini che rispondono al requisito del volgo. Falli di ogni guisa e muscoli pieni, curve arrotondate e sicurezza di sé; seni pieni, turgidi, a coppa, a pera; culi imperiali, delicati, floreali; ani, vulve, verghe… quanta bellezza! che inflazione! Tutto questo ha un senso compreso fra il metabolico e il ludico. Ho poi un grande rispetto per la pornografia: non quella dei mercanti di possesso, ma quella essenziale, quella radicale raccontata da conoscitori profondi della crudele istintiva basicità della natura animale degli esseri. Ma questa è un'altra storia che appartiene ad un mondo indistinto, un pleroma di fango e carne che si trova agli antipodi netti della Bellezza e che non desidera altro che riportarla a quelle origini prenatali.

Il pensiero di fare mia la bella appartiene forse e tutt'al più alla mia adolescenza. Con gli anni e molto presto, in fondo, ho perso l'irrazionale anelito di potere fare mia la bellezza semplicemente possedendola: fidanzandomi o copulando.

Quando accanto a te per la strada passa un bell'uomo o una bella donna, poco importa che abbia il sesso con cui ti accoppieresti, come un arco riflesso condizionato chiami "desiderio" il guizzo che sorge dalle tue viscere. Si tratta però di un sentimento che non va da dentro a fuori, ma che rimbalza da fuori a dentro prima di uscire nuovamente all'esterno. Ossia, desideri essere come lui o come lei, ma soprattutto desideri essere desiderato perché così proveresti il sentimento di avere in te la desiderabilità che scambi troppo facilmente per bellezza. Quel desiderio è fratello siamese della comune invidia che poi virerà in gelosia.

Questa ridicola e triviale speranza del possesso della bellezza nasconde un pensiero magico di partecipazione per incorporazione, come se impadronendosene attraverso l'atto ludico simbolico della penetrazione si venisse a parteciparla e addirittura a parteciparne tutti, come nelle orge esoteriche.

Ma la Bellezza è come un lucciola che desideri afferrarla per essere un po' anche tu luminoso e nel momento in cui lo fai la uccidi e in quell'istante stesso perdi anche la sua luce.

La mia Bellezza è altrove.

Cerco una Bellezza intima, privata, riservata, fuori dall'evidenza di tutti.

La mia Bellezza che sono in fondo io.

Credo di avere raggiunto un traguardo nel momento stesso in cui ho maturato una "mia" idea di bellezza. Un tempo era confusa, complicata, incerta. Oggi invece potrei esprimerla in una formula, una sorta di sillogismo.

Per me la Bellezza è "manas", é energia spirituale che anima forme imperfette traducendo l'originalità dell'imperfezione in richiamo.

Questo manas, questa energia attrattiva è quello che io e forse molti altri chiamiamo "fascino".

Una donna bella è quella che per me ha Fascino e non quella piacente per uno standard formale apparentemente universale, ma in ultima dipendente dai gusti di un'epoca o dalle mode trasmesse dai media della nostra generazione.

Il primo passaggio è quindi il FASCINO.

Questo Fascino si disperde immediatamente in assenza dell'Intelligenza. Non il quoziente intellettivo, l'intelligenza combinatoria delle macchine calcolatrici, ma quella dello sguardo che riduce la realtà alla propria angolatura, all'interpretazione fulminante della propria estetica. L'intelligenza che lascia dietro di sé l'alone di incompiuto che perviene dal rispetto del dubbio, dal culto del dubbio. Perché senza aleatorietà non può esserci vero fascino: il dubbio e l'incompiuto è quel vuoto in cui subito la nostra fantasia si tuffa a pesce per riempirlo, per parteciparlo.

Il secondo passaggio è dunque l'INTELLIGENZA.

Infine, tuttavia, questa intelligenza potrebbe essere furbizia che dissimula il fascino. Una condizione tipica della seduzione, la dissimulazione che serve per truffare la sensibilità dell'altro, il più squallido dei più diffusi stratagemmi che la presunzione di possesso esercita per fare del male, in fondo più violenta dello stupro, perché dove lo stupro offende solo il corpo, questa, oltre al corpo stesso, deturpa e sfregia l'anima, la fiducia in sé e nel proprio sentimento interno di Bellezza.

Nessuna Bellezza è in fondo possibile senza l'ultimo e più importante ingrediente: l'AUTENTICITÀ!

Essere autentico e autenticamente Bellezza significa non avere bisogno di essere completato per amare - usiamo una volta sola questa difficile parola. Vuol dire muoversi con una naturalezza propria. Vuol dire provare una sana ironia per il desiderio altrui e anche per il proprio e soprattutto essere immediati e chiari, limpidi nel riconoscere la Bellezza Autentica fuori di sé, come per un diapason che risuoni la stessa nota, e nello stesso tempo puri nel lasciarla andare a percorrere libera la propria strada, paga il più delle volte di averla riconosciuta e qualche volta conosciuta (in senso non necessariamente biblico) meglio.

Per me la Bellezza è dunque figlia del fascino intelligentemente incompiuto pregno di pura autenticità.

Con l'età sono felice di sapere riconoscere nel mio prossimo sempre meglio un raggio di quella Bellezza che me la fa riscoprire come parte di me stesso. Il giorno in cui non sarò più capace di riconoscere quella bellezza sarò meno vivo. La vera povertà che spesso chiamiamo vecchiaia è in fondo non riuscire più a vedere ogni giorno e per ogni dove questa bellezza intorno e dentro me.

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Location:Avenue de la Plage,Roccabruna,Francia

27 marzo 2011

Il Web 3.0 pensionerà la nostra specie

Intervistato da Jason Calacanis al Liveblogging SXSW, Tim O’Reilly ha spiegato il seguito del tormentone del Web 2.0 che, in mancanza di meglio, ha battezzato grattando il barile della sua originalità Web 3.0.

Chi ha qualche anno in più, e Tim ne ha abbastanza, dovrebbe ricordare, non solo il Web Semantico, ma anche la parabola precoce del cosiddetto M2M (che stava per la metafora del sistema di macchine a generazione autoreferenziale, machine-to-machine).

A fronte di un'intelligenza su network che, inflazionandolo, ha impoverito il valore di quello che ritenevamo più prezioso, come la comunicazione, l'informazione, la cultura, stiamo giungendo ad un'auto-generazione di referenze (i tag) che a loro volta mescolano i contenuti, confondendo le parole con le conoscenze, il consumo con l'elaborazione, la lettura con la meditazione.

Facendo eco all' Howard Rheingold di "SmartMobs" e al Don Norman de "Il computer invisibile", Tim nota come gli smartphone, la geolocalizzazione, i feed rss… stiano costruendo attorno a noi una rete neurale che vive e "pensa" al nostro fianco. Questo sta ribaltando i rapporti di forza: non è più lei che serve noi, ma siamo noi ad essere i suoi burattini, come la premonizione dei tempi mefistofelici intuiti da Rudolph Steiner un secolo fa.

Dobbiamo ricordare che Internet e il Web, qualsiasi sia il suo numero, non è né indispensabile, né invulnerabile. Pensiamo solo a quello che accadrebbe nel caso di un crash magnetico come quello ipotizzato da certi catastrofisti. Potremmo pensare che si tratti di un'eredità che la nostra specie, nella sua variante cosiddetta "occidentale", capitalistica, sovra-produttiva e consumistica, lascia alla storia. Ma Alessandria e la sua biblioteca, come forse Atlantide e la sua civiltà, sono rimaste cancellate e con esse la storia che avrebbero dovuto testimoniare. Internet, riprocessando tutto il riprocessabile, finirà come una funzione statistica per ridurre tutto ad un rumore di fondo.

Quello che dovrebbe interessarci, ma sembra che non sarà mai così, dovrebbe essere il nostro lavoro, la nostra capacità di pensare, di inventare il futuro… tutto quello che sapevamo fare prima di impigrirci nell'ultimo epifenomeno entropico della tecnologia.

Alle origini della nostra cultura vi era la trasmissione orale ed il passaggio a quella scritta veniva visto dai saggi antichi come un impoverimento, perché i Maestri non potevano trasmettere il proprio insegnamento senza la propria presenza. Questa maestria è tipica di molta formazione di tipo iniziatico, come ad esempio quella caratteristica dell'apprendimento della psicoterapia. I libri possono aiutare a ricordare quello che hai imparato, ma non insegnare. Per questo la scuola delle nostre Nazioni è un vuoto a perdere e con essa tutte le conoscenza che possano essere ridotte ad archivi semantici di parole e meccanismi bulimici consumistici.

Internet, nelle incarnazioni di qualsiasi Web 3.0, non potrà sostituire l'essenza della civiltà umana nelle sue luci ed ombre, ma solo chiudere la parabola della delega di un presidio faticoso: quello della condizione umana.

Personalmente mi domando perché scrivo ancora - su web o su carta, poco importa. Poi mi rispondo che il fine principale è quello di chiarirmi le idee, perché la mia coscienza sia testimone della storia che attraverso. In fondo Leibniz non aveva torto e neppure Maturana e Varela: siamo monadi autopoietiche; abbiamo in comune accoppiamenti strutturali, ma la storia che ci interessa è tutta dentro quel testimone della nostra esistenza che chiamiamo, non senza una certa promiscuità, coscienza.

Ormai quindici anni fa, tondi tondi, il sottoscritto scriveva in una delle parti da lui curate del lavoro corale Sesto Potere il paragrafo che segue. Non lo cito per rivendicare ridicoli riconoscimenti, ma solo per sottolineare come il "nuovo" che verrà sarà già stato vecchio molto tempo prima. La tecnologia è il dito che i geek stolti fissano per evitare di guardare la luna che da sopra sogghigna a guardare il nostro eterno infantilismo.

"Hans Moravec, responsabile del Mobile Robot Laboratory della Carnegie Mellon University, ciò a cui stiamo tendendo è di diventare de-gli Dei morti in qualche Olimpo a favore di una nuova specie robotica? Un po' come nel racconto di Borges, Le rovine circolari, in cui un mago trasformava il sogno di un essere nella sua concretizzazione reale, per poi scoprire che qualcuno aveva fatto un giorno lo stesso con lui? Veniamo dunque alla “fantascienza”. Nel suo libro Il gene egoista, Richard Dawkins concepisce un'umanità composta da ex-scimmie che, arrivate a modifi-carsi per ridurre gli atti e le decisioni ripetitive facendo uso di processi genetici, oggi sono giunte a creare una cultura talmente complessa da rendere obsoleti i tempi dell'evoluzione biologica. Per questo l'uomo oggi ha bisogno di macchine per “digerire tutta questa conoscenza”. Provate a domandarvi cosa accadrebbe se qualcuno da qualche parte nel mondo inventasse una macchina in grado di recepire dalla Rete delle reti tutte le conoscenze disponibili per poi elaborarle. Immaginiamo che si fossero inventati una serie di algoritmi combinatori che coniugassero le informazioni con degli schemi di significato per creare in continuazione nuovi testi, nuove teorie, nuovi racconti. Per scrivere le telenovela si fa già così. Siamo sicuri che sarebbe così impossibile creare una cultura delle macchine che si autoalimenti? Possiamo dirci certi che questa possa non risultare peggiore della cultura media di questo fine secolo? Ci troveremmo di fronte a una tale inflazione della conoscenza che la torre di Babele sarebbe paragonabile a una piccola disputa fra amici. Lo scollamento fra i nostri bisogni e la produzione culturale genererebbe un'esistenza paradossale e alienante. La cultura non verrebbe a essere più un bene, ma solo una forma di inquinamento. Lo scrittore di fantascenza Vernor Vinge sostiene che la curva di crescita delle conoscenze e della tecnologia, a causa di continue moltiplicazioni in tempi sempre più ristretti, arriverà a quello che egli chiama un “punto di singolarità”. Si tratta di quel momento in cui l'uomo non avrà più la capacità di assimilare e utilizzare l'informazione, le conoscenze e i mezzi per produrle e diffonderle finendo pertanto per separarsi dalla propria stessa cultura. Questa situazione, attesa per la prima metà del prossimo secolo, lascerà spazio solo all'imprevisto e all'assolutamente nuovo. A quanto cioè esca dai paradigmi culturali utilizzati finora. Qui si innesta la suggestione di Hans Moravec. Egli arriva a ipotizzare la realizzazione di quello che era il sogno di Nietzsche, il superamento della condizione umana. Le macchine portano avanti quell'evoluzione a cui non avrà più parte l'uomo, perché specie superata o perché grazie a que-sta delega avrà finito con il privilegiare altre mete. Potremo puntare a un ritorno allo stato primigenio, quello che precedette la nostra “missione” evolutiva, attraverso il recupero della dimensione tribale.

“Contrariamente alle convinzioni dei fanatici dell'etica del lavoro, il nostro passato tribale ci ha preparato – spiega Moravec – a una vita da nababbi. La vita dei cacciatori-raccoglitori doveva essere davvero piacevole: un pomeriggio trascorso all'aperto a raccogliere fragole o a pescare – quello che noi uomini civilizzati facciamo il fine settimana – dava di che vivere per parecchi giorni. Molte delle attuali tendenze presenti nei Paesi industrializzati lasciano presagire un futuro in cui gli esseri umani saranno supportati da una ricca economia basata sul lavoro dei robot, come i nostri antenati erano supportati dall'ambiente naturale che li circondava”. (...) Ma è davvero possibile un ritorno alla dimensione tribale nel contesto dell'odierna società dei consumi? I cacciatori-raccoglitori vivevano in gruppi di trenta-quaranta individui all'interno di spazi immensi ed erano scarsamente interessati all'accrescimento della ricchezza materiale al di là del li-vello di sostentamento. Inoltre, contrariamente alla nostra civiltà che ha completamente perso la dimensione del sacro, la loro preoccupazione principale era legata ai valori religiosi e alle attività cerimo-niali e rituali. (da Valerio Saggini, “La mente Immobile”, Virtual, n. 27 gennaio 1996, pag. 78)
Se questo può sembrare uno scenario fantascientifico, secondo l'accreditato futurologo John Naisbitt il processo di tribalizzazione sarebbe già in atto. Nel suo nuovo libro questo neo-tribalismo, contrapposto e complementare all'ideologia universalista di origine illuministica, è funzionale alla volontà di superare la dimensione politica globale per approdare a un'etica dei gruppi. Le tendenze nazionalistiche sempre più diffuse sarebbero quindi da reinterpretare in chiave di appartenenze più vicine, del bisogno di forme di comunicazione più coartate e meno “globali” seppure in presenza di una contemporanea globalizzazione radicale. Per esemplificare, immaginiamo un mondo in cui, non solo ogni stato, ma ogni regione, provincia, città avessero delle frontiere. La frontiera stessa perderebbe tutta la sua attuale importanza e paradossalmente ci troveremmo a vivere in un mondo in cui i singoli riuscirebbero a comunicare, a scegliere ognuno per la propria vita e ad avere un pensiero legittimamente localista, senza più confini seri da legittimare e riaffermare violentemente. Eticamente ci potrebbe essere quindi coesistenza di solidarietà ed egoismo, di interessi universali e cura del privato. Si vivrebbe con meno preoccupazioni della proprietà e con una percezione territoriale più allargata, ridimensionando l'attuale mobilità selvaggia di singoli e di gruppi. In un mondo simile potrebbe aver luogo quel recupero dei valori umani altrimenti impossibile. Il bisogno di tribalità (come si può leggere, nel senso positivo del termine) lo si può ravvisare nel sempre più abitudinario ritorno alla tradizione e alle culture dei vecchi, e ancor più, nel recupero in nuove forme dell'espressione di religiosità. Il richiamo al tribalismo fa tendenza e così, sulle orme del miracolo commerciale di Wired, accade che persino una rivista di costume e tendenze nostrana, Village, si ponga come riferimento per le tribù contemporanee. Tutto sembra indicare che il punto di svolta possa essere dato dal supera-mento dell'identificazione delle funzioni mentali in quelle del calcolo e del problem solving. È convinzione diffusa che delle nostre sole potenzialità cerebrali si stia sfruttando solo una minima parte. Delegare al computer quelle tradizionali potrebbe lasciarci molto più tempo per lavorare a identificare e potenziare le altre. Prima fra tutte proprio quella coscienza vigile che ci fa dire (parafrasando il Cogito cartesiano) che siamo in quanto ne siamo consci.
tratto da: Martignago, Pasteris, Romagnolo, Sesto Potere, Apogeo Editore, Milano, 1997



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Location:Corso Regio Parco,Torino,Italia

15 marzo 2011

Scheletri consumisti radiattivi

Guardateli!

In punto di morte, consumati da ogni forma di inquinamento, veleni chimici, radioattività, impegnati ad alzare il PIL e l'occupazione schiavista del nostro - MA DI CHI???!!! - paese!

Così li vogliono: Consumistici Zombies Radiattivi!

È così che vuoi tuo figlio?

Il loro no: sarà altrove nell'ora della catastrofe!

Quale escalation prevede il modello dei nuclearisti, ma anche dei carbonfossilisti?

Quanto dobbiamo aumentare i consumi per morire ricchi, non noi, certo, ma i nostri modelli di leadership?

Non ci basta mai.

Non ci dobbiamo credere a quello che ci raccontano! Resistiamo nelle convinzioni di eternità fino all'ultimo. I morti non sono morti o se sono morti è perché se lo meritavano, in fondo. "Loro sono gialli e hanno copiato tutto da noi fin dagli anni '60. Ecco perché sono finiti così"

"Noi siamo meglio!"

No, siamo solo degli stronzi, furfanti, presuntuosi, incapaci di fare la centesima parte di quello che hanno fatto loro e, giusta o sbagliata che sia, di avere una pallida idea del loro grado di socialità.

Eppure ci picchiamo di insegnare a tutti come si vive.

Consumatori moribondi che non ravvisano altro traguardo che l'innalzamento della produzione e l'abbassamento del price-cap che vuol dire far fuori tutto svalorizzandolo due volte: la prima esaurendolo come infinito e irrisorio se confrontato alle nostre esigenze di specie e di razza; la seconda riconoscendogli un valore sempre più inferiore, per pagare nulla esigenze più esasperate che esagerate.

Di che cosa stiamo parlando la nostra coscienza più o meno autentica, più o meno falsa, lo sa. Ma ho il disgusto a sentire riecheggiare ancora la loro spregevole voce:
"La paura non fermi il nucleare", "Sarebbe un errore lasciarsi sopraffare dall'ansia e dall'emotività", "L'incidente è dovuto alla tenuta dell'edificio", "C'è sempre qualche sciacallo pronto a speculare sulle disgrazie altrui, cercando di terrorizzare l'opinione pubblica e condizionare le istituzioni".
Un pugno di persone consuma la quasi totalità delle risorse del resto del mondo e la punta di un'unghia di quel pugno assorbe la quasi totalità della ricchezza della mano e quindi del resto del mondo.
  • Crescere è un'altra cosa!
  • Crescere è staccare la spina!
  • Crescere è rinunciare al superfluo!
Esiliamoli a calci nei denti, se ci resta ancora un po' di moralità, un po' di etica, un po' di civiltà, un po' di religiosità.
All'esilio tutti quelli che viaggiano con l'autista: come vorrei vederli sbranarsi a vicenda, cannibali di potere, in qualche paradiso fiscale o sull'Isola Cavallo o Lavezzi.

Questo è quello che la mia pancia vorrebbe, ma lo so, il germe della corruzione e dell'egoismo è anche dentro di me e di tutti noi.
Basterebbe solo curarlo, estirparlo, non soffrire più di questa fame di egoismo per fare sì che i parassiti si dissolvano al sole e al vento!

Altrimenti guardiamoci morire di consumi e dei loro effetti: il morbo dei consumatori sta bussando anche alla nostra porta.

Se anche l'ultima scelta fosse quella di come morire, beh, sarebbe già molto riuscire a farlo con la serenità che deriva dall'essere più autentico, più onesto, più pulito.

Farlo senza vergognarmi troppo della mia vita.

Io al posto loro, proprio non ci riuscirei. Non ci riuscirei mai!

08 marzo 2011

Una guida per scegliere il lettore di libri digitali

Non dite che non ci avete mai pensato se fosse o meno il caso di prendere in considerazione l'acquisto di un e-book reader!
Un po' perché è uno dei giocattoli del momento, un po' per provare di nascosto l'effetto che fa, un po' per vedere se fa come con l'iPod, il potere di avere quintali di libreria in tasca e il cambio libro ovunque, dal treno al gabinetto. Soprattutto l'idea di eliminare carta, non solo per i consumi, ma in particolare per lo spazio sempre più tiranno delle nostre case. La questione è tutt'altro che semplice e fa passare la voglia a tutti. Per me è stato così fino a ieri, quando ho deciso di capirci qualcosa di più e, come al solito, ho pensato che il ragionamento potesse essere utilmente condiviso.
Per arrivare ai dispositivi, i cosiddetti e-book reader, bisogna prenderla da lontano, da questo mondo pazzo del mercato digitale.


Il mercato
Steve Jobs ha aperto l'ultimo keynote di Apple dando una notizia riguardo alla commercializzazione degli e-book attraverso la propria piattaforma di e-commerce interfacciata al programma iBook disponibile per iPad (oltre che per iPhone e iPod Touch). Nonostante il nostro guru non manchi mai di dispensare attributi entusiastici ed esaltanti nel magnificare ogni virgola dei propri prodotti, al riguardo si è limitato a dimostrare il successo ottenuto usando il numero degli editori che hanno aderito alla libreria della Mela. Che le vendite possano fare il paio con musica e applicazioni, questo neppure lui lo ha affermato. Il libro rimane un settore difficile e delicato.


Il mercato del libro digitale si è scoperto essere scarsamente dipendente dall'evoluzione di quello elettronico: a vendere è la libreria. Anche qui, però, le cose sono tutt'altro che facili. Chi vende tanto per ora ha solo un nome: Amazon. Quello che li premia è essere stati i primi: non i primi a mettercisi, ma indubbiamente i primi a capire come possono funzionare le cose. Il negozio della vendita per ora solo "fisica" degli epigoni di Bezos è da poco sbarcato in Italia e già ci prende alla gola l'adrenalina proveniente dai grandi canali dell'editoria e non solo di quella (segue a ruota quello dell'elettronica e dei media in genere).
Sul mercato del testo digitale, il negoziante italiano è ancora sguarnito e lo rimarrà ancora per i pochi mesi che gli operatori nostrani avranno a disposizione per recuperare posizioni. Lo scenario non è allegro. Ci sono due o tre grandi agglomerati con poche idee chiare se escludiamo quella più dannosa di tutte: il lobbismo che verso il Paese porta indietro all'epoca dei comuni e verso l'Europa dà prova di quanto siamo provinciali a confronto degli USA.


I prodotti
Tuttavia, non è di mercato che voglio qui parlare. Vorrei parlare di regali, da fare e da farsi.
Quando si pensa a un e-book reader, prima di tutto bisogna essere consapevoli di quello che ci si legge e di dove lo si va a prendere.
Amazon ha capito che a regalarlo, il lettore, ci avrebbero comunque guadagnato un'esagerazione. Invece di regalarlo, comunque, lo ha messo più o meno a prezzo di costo e così facendo ha bruciato il commercio elettronico di marca. Se Amazon ti offre un ottimo reader a più o meno 130 bigliettoni, come fai a far pagare il tuo tre volte tanto, come nel caso delle marche più blasonate, da Sony a Samsung?


Possono dire quello che vogliono che il loro è migliore, perché alla fine se andate a prenderli in mano ve ne accorgete subito - e questa è la prima importante considerazione generale - che gli e-book reader tutti, chi più e chi meno, sono delle baracchette da due soldi. Ti viene da chiederti perché dar loro svariate decine di euro, figurati tre o quattro centinaia o più ancora. Sono convinto che in men che non si dica gli e-reader faranno la fine delle calcolatrici da tasca che negli anni '70 costavano un autentico patrimonio e nei '90 le trovavi nei fustini di detersivo.


Per questa ragione i grandi produttori si stanno abbastanza rapidamente tirando indietro dalla corsa all'e-reader per lasciare posto a etichette quanto mai anonime che celano display e circuiti integrati prodotti più o meno tutti a tot al quintale. Le marche passano a cimentarsi in un altro comparto, quello dei tablet. E qui ce la giochiamo fra i 10" del modello iPad fino ai 7" del modello Galaxy. Qui sì che si può sparare la cifra che si vuole facendosi forti di una spiccata varietà di tecnologie.


Occorre però dirlo una volta per tutte, su un tablet si possono fare le cose più interessanti e divertenti. Ci sono colori, musica, video… tutto parla con il resto e con il mondo. Un lettore accanito, un lettore vero, però, non potrà mai uscire soddisfatto da questa esperienza. Un e-book reader è tale perché ha dovuto gioco forza rinunciare ad essere altro: un computer o un tablet, un libro o una TV… e questa rinuncia lo premia a diventare presto l'unico prodotto per la lettura di documenti e libri a tempo pieno. Non si può dire lo stesso per riviste, libri fotografici, portfolio e neppure per i rotocalchi. Per questi l'unica soluzione rimane l'iPad (e le sue imitazioni).


Eccoci così alla seconda considerazione: quella fra tablet e e-reader non è una scelta alternativa, o l'uno o l'altro, ma caso mai fra quello che serve a me per le cose che consulto o piuttosto fra quale dei due avrà la precedenza nell'acquisto rispetto all'altro.
Solo fino a un decennio fa, circa, prima del concetto di Digital Hub presentato da Jobs proprio nel 2001, la scelta di un mezzo elettronico escludeva quasi tutti gli altri. Oggi fanno parte tutti insieme di un ambiente complessivo, una specie di matrioska dove la bambola più grande è un desktop da 27 pollici e la più piccola è in realtà una famigliola di dispositivi, dallo smartphone generalista agli apparecchi specializzati in foto, musica ecc…


Per leggere il giornale, non ci sono problemi ad usare il telefono touch screen, ma il tablet va meglio, così come, per quanto i secondi abbiano webcam e casse, sarà il primo ad essere più adeguato per fotografare, geolocalizzare, taggare e ascoltare musica. E così via.


Come scegliere l'e-reader
Gradualmente ci stiamo avvicinando al negozio.
Insomma, siamo arrivati alla considerazione che, per quanto siano chincaglieria costosa sono anche l'unica vera alternativa alla lettura cartacea. Sono un prodotto paradossale perché si trovano nei negozi di elettronica i cui mercanti non sanno nulla delle specificità del mercato dei libri, ma chi ha bisogno di venderli sono i librai, venditori che non sanno nulla di display, connettività e scala di grigi. Un vero paradosso: osservate il reparto di qualche Mediaworld, Unieuro, Fnac e similari… Li tengono nelle teche o sui bancali generalmente tutti spenti e scollegati, ignorandone caratteristiche e differenze, mentre fanno affermazioni confuse e del tutto imprecise, a volte con il disgusto che riservano per qualcosa che sa di scuola e professoressa d'italiano.


Che cosa dovrebbero dire i negozianti a un cliente come me?
Ecco quello che direi io al posto loro:


«Quello che devi guardare in un e-book reader sono poche, pochissime cose:1. che consenta di comprare libri italiani e di farlo senza pasticciare con computer e portali vari (e questo esclude per il momento il gioiellino-Kindle di Amazon) e, visto che i nostri editori sono inutilmente sospettosi e per nulla lungimiranti, dovrà supportare i formati con la protezione dei diritti (DRM, soprattutto Adobe) epub e PDF2. dovrà pesare più o meno come un libro e dovrà essere quanto più tascabile possibile in rapporto alla leggibilità (in relazione alla vista), da un lato, e alla capienza (per non cambiare pagina ogni due parole); che siano più in generale ergonomici, nel posizionamento dei tasti, nel tipo di touch screen, nell'uso meno innaturale possibile della penna per quelli che l'hanno adottata3. di non spenderci troppo, innanzitutto, perché fra una stagione o due non varranno più nulla e poi perché fra altrettanto tempo saranno drammaticamente superati, badando bene che siano robusti, specie sul versante schermo4. che ci si legga senza stancare la vista nel maggior numero delle situazioni comuni: in poche parole, che non usino la tecnologia dei computer per gli schermi (anche se oggi si distingue ancora fra erogatori di libri e quelli di riviste e multimedia in genere - ottimo compromesso i tablet da 7" come il Galaxy); in breve, emulazione d'inchiostro su pagina al massimo di toni di grigio possibile e che il refresh dello schermo sia rapido e senza fulminazioni luminose (e questo non sono in tanti al momento a permetterlo)5. che siano collegabili ad Internet, possibilmente oltre che con il Wi-Fi, anche con il 3G (Internet via telefonia mobile) e non solo per comprare i libri, ma soprattutto per andare su Wikipedia, IMDB o semplicemente Google quando nel libro trovi qualcosa che non sai»

«Dopo questi cinque punti principali, allora, ma solo allora potrai prendere in considerazione quelli secondari, come l'estetica, il fatto che consentano di prendere appunti, magari sulla pagina stessa, come il Samsung, di evidenziare, ascoltare gli mp3 leggere il testo scritto o recitare gli audiolibri, godersi i fumetti per bene, vedere alla bell'e meglio foto e disegni e addirittura di farne di avere funzioni di handwriting e magari la tastiera virtuale o di essere dotati di microfono per annotare vocalmente»


Se poi conoscete qualcuno che ce l'ha, fatevelo prestare una sera e godetevi almeno un'oretta di lettura, perché non tutti trarranno piacere dalla sostituzione della carta e sarà bene scoprire di che tipo sei prima di aggiungere un altro dispositivo elettronico destinato all'inutilizzo dopo aver sborsato un quarto di migliaio di euro.


Infine i prodotti: i miei preferiti da 6" sono (tralasciando il Kindle, del tutto inadeguato al mercato commerciale e specialistico in lingua italiana):
LeggoIBS, come migliore offerta proveniente dalla libreria: sarà poco bello e tutt'altro che rapido, ma ha tutte le cose che servono ad un prezzo conveniente sotto i 200€.
Onyx Boox 60, una macchina molto veloce, molto leggera, con il migliore cambio pagina e tanti servizi specie in rete, allo stesso ordine di prezzo.
Samsung E60 seguito di non molto dai modelli Sony (decisamente menomati dalla mancanza di collegamenti in rete) per la costruzione, la robustezza e la tecnologia, che comprende la dotazione di memoria e le prestazioni del processore, anche se gli altri requisiti non sono eccellenti, ma soprattutto il prezzo è ancora alto, anche se piano piano tente all'asintoto con i modelli precedenti: quando questo avverrà, probabilmente quelle marche avranno già lasciato il settore. Esiste anche un modello 10".


Ma poi ci sono una miriade di sotto-marche che non sono da valutare: domani resteranno poco famose ma ci faranno leggere con prodotti usa e getta, come un accendino o un rasoio. Anche i celluari sembravano dover diventare usa e getta, ma poi tutti questi prodotti hanno presto o tardi fatto coppia con quelli blasonati, senza che uno abbia mai del tutto escluso l'altro.


Presto detto, e ora: Buone coccole!

03 febbraio 2011

Angeli e demoni

Esistono due tipi di orrori.

Il primo è il linguaggio che è all'origine del pensiero formale e quindi dell'io, della sofferenza e dell'egoismo che accompagna la superbia, sorella dell'odio, delle religioni storiche e del fanatismo.
Il secondo sono i sensi che sorreggono i bisogni, il piacere e il dolore (che è diverso dalla sofferenza), l'ingordigia e la schiavitù, sadismo e masochismo, cinismo crudele e quello che millantiamo come amore.

Steiner diceva che sono entrambe forze demoniache. Ha chiamato la prima Lucifero e la seconda Mefistofele. Il primo ha la natura della divinità, tende all'alto: è un tipo di Angelo. Il secondo è una creatura della caduta, dell'esilio sulla terra, una malattia dell'imprigionamento: un Leviatano.
Tutto quello che possiamo fare - e sarebbe tantissimo - è solo riconoscerli e chiamarli per nome nei momenti semplici di tutti i giorni: non nelle notizie del telegiornale e nel lontano, ma di fianco a noi e in noi.
Tocchiamoli, ancoriamoli etichettandoli senza seconde intenzioni, come si fa giocando a darsela: si tocca e si dice "ce l'hai!".
Il più delle volte i demoni sono indeboliti al solo essere riconosciuti per quello che sono, mentre a giudicarli spesso finiscono per vincere loro.


- Postato con BlogPress per iPad

02 febbraio 2011

Un incubo riuscito

Si dice che ci siano sogni e sogni.

Ci sono quelli narrativi, a volte sensati, spesso meno, in cui la storia, il racconto prevale sul ricordo, sulla chiarezza sensoriale… sono quei sogni che li racconti quasi per sentito dire.

Poi ci sono quelli che chiamo "sogni-evento" perché il loro ricordo è più prepotente di una scena realmente vissuta.

Sono sogni di realtà aumentata, iper-reali, che continuano a perseguitarti per tutto il giorno e non te li togli più dalla testa. Si dice, e io sono fra quelli che lo fanno, che questo tipo di esperienze oniriche siano comunicazioni che ti provengono da un'altra sfera: puoi pensare all'al di là, a qualche maestro di un'altra dimensione o all'inconscio collettivo, poco importa. Per questo hanno un valore di tipo diverso, anche se il loro significato lo si scopre meglio in seguito.

Quando hai di queste esperienze - e chissà perché non ne ho mai di pacifiche, bucoliche o generalmente liete - per sentito dire e per esperienza, so che la cosa migliore da fare è quella di condividerle.

E per che cos'altro ci starebbero a fare i blog???

Quindi beccati il mio incubo!

"Ero in una sala d'attesa di un poliambulatorio medico, alternativo. Anche i medici stavano lì ad aspettare, mandando indietro i pazienti che non avevano il numero che doveva passare in quel momento, anche se poi non avevano nulla da fare e ciondolavano in piedi come gli astanti. Io non dovevo passare. Accompagnavo qualcun altro che aveva a che fare con la prima parte del sogno, quella più tradizionale. Ad un certo punto mi avvicino ad un'enorme vetrata che prendeva tutta la lunga parete della sala d'attesa. In una sorta di tramonto particolarmente affascinante dalla collina di una città che sapevo dover essere Nizza, improvvisamente un pezzo di crosta terrestre più esteso della città stessa, roteando vola in aria e sembra che sfiori le vetrate della mia sala d'attesa per poi ripiombare fragorosamente nel mare. Di lì a poco un'onda altissima, di gran lunga più della collina stessa, roboando avanza  verso dove mi trovo io travolgendo tutto. Ricordo una grande confusione a valle della quale io, come onda o come resti della distruzione, scruto il paesaggio devastato con un misto di sentimenti da cui prevale una romantica nostalgia."

Ecco. Finito l'incubo. Ricorda un po' il film di Clint Eastwood, Hereafter, l'al di là, ma infinitamente più in grande.

In questi casi, essendo un sogno della prima mattina, quello che conta sono anche i primi pensieri che l'accompagnano, quelli che vengono da soli quando ancora non ragioni bene.

La prima evocazione è stata il ricordo di Atlantide, il continente sommerso, le cui scienze e tecnologie si dice per presunzione abbiano determinato il cataclisma. Poi quei religiosi che sostengono si debba presto riparare sulle montagne per sperare di salvarsi dalla fine del mondo. Poi alla crosta terrestre che cede sotto il peso di quello che vi si trova al di sopra, dopo essere stata privata del sostegno fluido costituito da petrolio e gas cui possono aver contribuito gli stessi atlantidei scomparsi e affossandosi libera veleni brucianti e lava che devastano tutto prima che l'acqua venga a ricoprire ogni cosa fino a lambire i monti dei superstiti. Così ho pensato che poteva spiegare quella descrizione della fine del mondo che ne davano Incas o Maya che fossero, fino agli aborigeni, ovvero che la civiltà sarebbe scomparsa dal mare che si schianta sulla terra arrivando dall'alto, come le acque del lago del Vajont al precipitare improvviso della terra dentro di esso.

Poi sono uscito, ho parlato con mio figlio, di scuola, di cellulari, di sport… tutto è tornato a scorrere.

Normalmente.

Camminando per il centro non ho potuto non notare quanto fosse cresciuto il numero dei mendicanti. Noi, quelli che dormono al caldo, e loro all'addiaccio, su due lunghezze d'onda diverse: se non sei in quel mondo, perché preoccupartene? Semplicemente non esiste. È solo autolesionismo il tuo. La terra, il luogo che è stato affidato per alcuni millenni alla razza umana, a dispetto, non solo di Keplero, Copernico e Armstrong, ma anche dello stesso Tolomeo, a noi bipedi appare come una sicura piattaforma infinità. Non può cascare! Ci sorreggerà sempre perché sotto di lei non c'è che terra che poggia sul suolo e sul suolo del suolo infinito. Anche se sappiamo che non è così, ci sembrerà sempre impossibile che sia altrimenti. La vita è un lungo fiume tranquillo!

Se credessi nella psicanalisi o se anche solo mi piacesse, potrei magari considerare il tutto una reminiscenza del travaglio prenatale; se mi mettessi il cappello psicosomatico potrei pensare a vescica, reni, ma anche al sistema reticolo endoteliale; se fossi esperto di cabala saprei che numeri andare a giocare e su che ruota. Ma so cantare a malapena qualche canzone, qualcuna mia e qualcuna di altri di molto tempo fa e allora chiudo con un De Gregori d'annata:
"…Un amico d'infanzia, dopo questa canzone / Ha detto «È bellissima, è un incubo riuscito / Ma dimmi, sogni spesso le cose che hai scritto / Oppure le hai inventate solo per scandalizzare?» / Amore, amore, portami via / Devo ancora svegliarmi!"

31 gennaio 2011

Il taccuino del tecno-randagio

Già che stavamo parlando di Twitter, ricordo gli amici del Franti che una delle sue reincarnazioni è sotto le ideali mentite spoglie di un Dennis Hopper o di un "Matto" dei Tarocchi, entrambi con qualche Smartphone o NetBook in mano invece che con Kerouac o Stirner (già immagazzinati da piccolo!).

Si chiama Nomadware e i suoi pensierini sono qui; chi non vuole twittarsi può tornarci su a leggerne quando vuole senza impegno e chi si twitta o è twittato può tenere d'occhio le discontinue e sconclusionate (spesso all'apparenza) vagabondaggini scegliendo di "seguirlo" sul social network del canarino.
Un giorno seleziono unn po' di materiali e li metto insieme per un piccolo contributo al randagismo disincantato.

Chi poi, sempre a proposito di Twitter, volesse accedere alla sua Edicola gratuita (magari da smartphone o iPad, o genericamente inserendola in Google Reader), ha solo da farsi un giro qui... e annotarsi l'indirizzo.

Vendemmia di cinguettii

Diversamente da Facebook, i cui meccanismi sociali tradizionali sono più comuni, soprattutto per noi mediterranei, più facili da apprendere e più inclini alla contaminazione, Twitter non ha trovato un equivalente diffusione, almeno nel nostro paese, al di fuori di una più o meno ristretta intellighentia giornalistica e accademica.

Si fa in fretta ad entrare in Facebook, non di meno se ne prendono frequentemente altrettanto presto le distanze, soprattutto quando l'esubero di amicizie finisce per renderlo molesto.

Twitter, bisogna dirlo, non appassiona nella stessa maniera: meno immediato, più professionale e poco incline a facili amicizie, è meno pane per cuore e pancia e più per mente e nervi.

Essendo questo mio piccolo spazio rivolto soprattutto agli amici che pazientemente mi seguono, non voglio tediarli oltre con ulteriori panoramiche sui social network e rimando gli approfondimenti ai due articoli per immagini che ho messo in appendice. Successivi approfondimenti porterebbero a percorsi senza fine.

Voglio invece fornire ai - saggiamente - meno pazienti un esempio che può essere chiarificatore a proposito di Twitter, una piattaforma che oggi di sicuro eccelle per quel che riguarda l'informazione. Posizionandosi a metà fra una discussione e un SMS, si presta facilmente a rimandi di notizie, come pure a tam-tam epidemici quali quelli che hanno dato il via alle manifestazioni del Belgio e del Nord-Africa.

Ancora più che con FaceBook, con Twitter si fa presto ad intasarsi di messaggi (i famigerati Tweet), non tanto provenienti da fastidiosi amici, quanto da fonti di informazioni che però, per la legge che l'appetito vien mangiando, diventano rapidamente ingovernabili.

Dopo un lungo innamoramento del mezzo, sono fra quelli che dopo qualche mese non è riuscito più ad usarlo per inflazione di notizie. Ho passato un week end a mettere ordine fra i miei account (ne ho già 4), imparando ad usare il potente mezzo delle liste. Queste possono essere anche solo private, ma il vero interesse sono quelle pubbliche.

Sarebbe molto interessante comprendere se il loro scarso uso sia dettato da una gelosia riguardo al lavoro di selezione o più semplicemente da uno scarso approfondimento degli strumenti del nostro "canarino". Sta di fatto che le liste sono lo scenario che, senza costringere nessuno ad iscriversi, consente a tutti di sbirciare come il nostro funziona, oppure di beneficiare delle fatiche altrui senza impegno alcuno.

Per farla breve, potete entrare nelle mie liste e utilizzarle senza iscrivervi a Twitter, partendo da queste che ho selezionato per voi:
  • La lista PrimeNewsIta è la mia Rassegna Stampa Italiana in Tempo Reale
  • La lista PrimeNewsPaper è l'equivalente della precedente dedicata però alla stampa internazionale, sempre in tempo reale
  • La lista ThinkTank è quella dove seleziono gli opinionisti e i fornitori di suggestioni (di natura spirituale e culturale, ma anche molto tecnologica) da me preferiti in questo momento, sensibile a variazioni e mutamenti del periodo
  • La lista PrimeNewsBlogIta è dedicata a opinionisti e blogger nostrani
  • La lista PrimeManagement a contributi manageriali e culturali, inevitabilmente dominata dalla lingua inglese
Che cosa puoi fare ora? Cliccane uno dacci uno sguardo. Salvala nei bookmark (preferiti) e lasciala sullo sfondo, così da dare un occhio di quando in quando agli aggiornamenti. Se la cosa ti piace potrai in seguito farti un account, salvarla fra le liste che segui, se è il caso guardare anche le altre che ho creato. Scaricati almeno un client per accedere: specie se hai uno smartphone, ne apprezzerai di certo l'utilità. Potrai condividere le fonti che preferisci e volendo fare le tue, di liste, per condividerle con gli amici.

Se non hai voglia di fare tutto ciò, continua a vivere di rendita e usa queste fra le tante ricorse cui accedere normalmente dal tuo browser. E, se non ti fosse chiaro qualcosa, non farti problemi a scrivere o a commentare.

Appendice: Social Network per immagini