11 aprile 2007

Telelavoratori

Ho assistito alcuni giorni fa alla interessante presentazione dell'esperienza di telelavoro condotta nell'Azienda Energetica Metropolitana di Torino, oggi del gruppo Iride.
Quello che predominava era il sentimento entusiastico di un gruppo che ha vissuto una sperimentazione promossa dalla Comunità Europea come un'occasione per vivere il lavoro in un'altra chiave.
Alla dimensione di socializzazione dell'ufficio si è sostituita quella di un gruppo virtuale, quello dei telelavoratori, percepiti fra di loro con spirito di corpo e comunione d'intenti.
Facevano da contraltare le predicate condivisioni dei responsabili aziendali, in gran parte assenti e comunque presto o tardi allontanatisi dall'evento. Un telelavoro sostenuto meno dalla Direzione e più dalla volontà del gruppo stesso.

Che cos'è che fa del lavoratore a distanza un telelavoratore?
Anche i lavoratori domestici degli anni '60 potevano essere considerati telelavoratori, se questo dipendeva dalla presenza in una sede aziendale. Mia madre montava penne o cuciva per ditte che neppure conosceva. Era anche lei una telelavoratrice?
Oppure è l'uso delle tecnologie che simulano la presenza in ufficio, il desktop del proprio computer remoto e i database aziendali a fare di questo lavoro domestico un telelavoro?
Per altri è invece la dimensione contrattualistica d'impresa e quindi sociale a costituire lo statuto di telelavoratore.
Azzardo che sia piuttosto la consapevolezza di questa gruppalità che unisce, anche se in differita, coloro che condividono la stessa esperienza a fare di loro dei telelavoratori.

Quando la sperimentazione finisce e il telelavoro continua, che fine fa questo gruppo? Esisterà ancora perché sostenuto dalla Direzione? Oppure sarà tanto forte il potere di influenza del gruppo da farlo resistere agli adattamenti dei tempi? Oppure il singolo finirà gettato nella sua solitudine a rimpiangere il lavoro d'ufficio? Staremo a vedere.

Tutto dipende da come la Direzione fa proprio il progetto di telelavoro, un modello che spaventa i responsabili, che sulla presenza dei lavoratori fondano la loro necessità di esistere, ancor prima dei dipendenti.
Una Direzione del Personale di stampo amministrativo, come le amministrazioni del personale della metà del secolo scorso, si ferma a governare le modalità di controllo e di monitoraggio e porta l'enfasi sulla contrattualistica, ovverosia sui "legami forti" di un modello aziendale fortemente strutturato, decisamente anacronistico rispetto alle destrutturazioni aziendali che più o meno tutte le imprese medio-grandi stanno vivendo.

Il telelavoro appartiene ad una rappresentazione d'impresa fondata sui "legami deboli" (Carl Weick), dove il governo strategico predomina su quello amministrativo e dove la Direzione Personale vecchia maniera non ha più ragione di esistere, se non come staff della Direzione Strategica.

In un modello di questo genere le rappresentazioni si fanno più concettuali (veicolate da processi) che strutturali (sostenute dall'appartenenza) e tutti diventano telelavoratori, anche quelli che stanno in ufficio.
Inutile sottolineare il peso che in termini di uso di risorse, di impegno di tempo e di stress, nonché di inquinamento avrebbe l'orientamento al telelavoro. Ma qui la questione è ancora più fondamentale: quali sono le necessità di funzionamento dell'impresa di questo inizio di millennio?
Il luogo di lavoro in uno scenario improntato da legami deboli è un concetto del tutto sfumato. Per i liberi professionisti e le società di servizi sta prendendo piede l'offerta di locali in affitto ad orario, dove si rende disponibile una scrivania ed una sala di riunioni ad ore pianificate. Anche nelle imprese il luogo di lavoro ha senso solo nei momenti di incontro, come riunioni o appuntamenti aziendali, mentre molti altri appuntamenti potrebbero aver luogo in sedi del tutto promiscue, come è consuetudine fra liberi professionisti. Il resto delle attività possono essere svolte non solo a casa, ma in qualsivoglia luogo dove siano disponibili le risorse necessarie per svolgere i propri compiti.

Così potremmo immaginare due tipi di telelvoratori, corrispondenti ad altrettanti modelli di professionalità:
- dei professionisti uniti da degli obiettivi di squadra per i quali è la dimensione di gruppo distale e tutte le infrastrutture logistiche e di socializzazione a caratterizzare un tale setting di lavoro (spesso gruppi impegatizi);
- dei professionisti caratterizzati da obiettivi individuali, siano essi professional, manager o anche executive, che rispondono in prima persona del proprio operato e che si qualificano sempre più come professionisti nomadi, più che come telelavoratori di gruppo, la cui condizione "apolide" diventa elemento costituzionale e strategico anche sotto il profilo aziendale.

Un lavoro che cambia ha senso in imprese che sanno modificare la propria rappresentazione e fra persone che riescono a trovare fondamento della propria professionalità in se stessi e non solo nell'appartenenza e nel riconoscimento del diretto responsabile. Un modello di persona diverso che già la geografia del lavoro sempre più sfumata e flessibile sta imponendo come un dato di fatto a partire dall'agito, senza attendere che qualcuno ne sancisca la realtà nominale.

10 aprile 2007

Knowledge Workers interni a progetto

All'inizio del 2000 il prematuramente scomparso studioso delle organizzazioni Richard Normann prevedeva la riduzione drastica del personale delle imprese di grandi dimensioni, arrivando a preconizzare che nel giro di qualche anno la grande impresa sarebbe andata a coincidere con il proprio stesso top management. Tutto il resto delle attività, direzioni esecutive comprese, sarebbero state esternalizzate.
Questa previsione si è puntualmente verificata anche se in maniera scomposta.

Così oggi ci ritroviamo con grandi imprese che si servono di contact center condivisi il cui personale nel giro di pochi giorni dovrebbe sapere tutto dell'offerta e dell'assistenza di ogni singolo marchio con conseguenze disastrose soprattutto per i clienti che finiscono per ritirarsi, non solo dalla società, ma spesso dall'intero comparto: il costo di seguire l'offerta della concorrenza o l'innovazione tecnologica è talmente alto in termini di tempo e frustrazione nei rapporti con l'azienda che si preferisce accontentarsi di ciò di cui già si dispone, addirittura regredendo a delle funzioni basilari. Meglio un telefonino fai da te oggi che un videofonino-broadband con call center, incomprensioni, fregature e frustrazioni domani.
I pochi dipendenti con un minimo di anzianità tuttora presenti nelle imprese sono vere miniere per il consumatore, allorquando abbia la fortuna di raggiungerne uno: nonostante siano spesso frustrati e demotivati, riescono in pochi secondi a risolvere problemi che durerebbero giorni e sequele di risposte scorrette seguendo le procedure normali.

L'altra incongruenza di questa situazione e che per arrivare alla grande impresa senza dipendenti si dovrebbero saponificare le risorse tuttora in carico e questo, forse per quelli che qualcuno considera "retaggi ideologici", non è ancora possibile. Tuttavia, mentre il personale generico è più facile da gestire in qualche maniera, almeno pro tempore, e le linee gestionali intermedie sono dislocabili in diversi modi, la fascia che porta con sé le maggiori contraddizioni sono gli esperti, i cosiddetti professional. Quanto più si fanno portatori di conoscenze pregiate tanto più sono scomodi. Hanno dei costi non indifferenti, ma soprattutto portano in luce i panni sporchi del modello. Si preferisce piuttosto pagare a volte a caro prezzo competenze esterne che sono a loro volta sotto-pagate con personale precario, spesso alle prime armi, grazie alle pratiche d'uso delle leggi sul lavoro da Treu in poi. Nel contempo si fanno "andare a male" portatori di esperienze utili e a volte uniche. Certo, l'ideale sarebbe fare confluire questi professional in società di consulenza come quelle auspicate da Normann, ma le cose - almeno in Italia - non stanno così: le imprese del nostro paese non hanno sensibilità per gli investimenti in intelligenza o servizi e fra burro, cannoni e conoscenza, all'ultima sono pronti a rinunciare immediatamente a dispetto delle dichiarazioni rilasciate al solo scopo di non incorrere in penalizzazioni dovute al bilancio di sostenibilità, ultimo segreto di Pulcinella societario. Nessuna società di consulenza assumerebbe esperti senior di appartenenza aziendale a tempo indeterminato, quando può vendere giovani su cui speculare per due soldi.

Questo vuol dire che queste grandi imprese dovrebbero mettere a fattor comune i propri professional che nessun distretto vuole avere nel proprio budget. Invece di rimpallarseli reciprocamente o di creare delle società specializzate ad hoc per competere contro i grandi speculatori del settore, dovrebbero creare dei grandi repositori corporate, un recettacolo indifferenziato di tutto il patrimonio di professionisti aziendali.
Oggi i knowledge workers sono sempre meno specializzati e fanno riferimento a sempre nuove interdisciplinarietà. Inoltre la qualità peculiare del lavoratore della conoscenza è quella di unire alle competenze disciplinari la conoscenza connessa all'esperienza e all'appartenenza aziendale.
Per questa ragione le imprese, marcatamente quelle di grandi dimensioni che stanno snellendo le proprie strutture quando non stanno addirittura destrutturando completamente grandi aree farebbero bene a pensare a una nuova figura, quella del lavoratore a progetto interno (un "Insider CoCoCo") da destinare di volta in volta all'area, alle divisioni, alle società controllate, collegate e così via al momento del bisogno.
Un bacino di competenze generale con un ampio spettro di utilizzo da sostituire o anche solo da affiancare ai gruppi in outsourcing. In questo modo si conserverebbe una preziosa competenza interna, ottimizzando i costi e riducendo gli sprechi.

Chissà mai però se imprese divenute oramai sempre più ostaggi delle multinazionali della consulenza e dei programmi gestionali si interesseranno mai di determinare qualcosa di sempre meno speculativo come la propria organizzazione interna?