Si sa ma non si dice che, durante i grandi cataclismi, per ogni cento sfortunati che perdono tutto ce n'è almeno uno che costruisce la propria fortuna. È stato questo il caso di molti terremoti, dal Belice al Friuli.
Un fenomeno simile si verifica durante le crisi economiche, compreso quella terribile di Wall Street del '29.
Canetti racconta di quel sovrano che, avendo raggiunto un potere assoluto, cominciava a sospettare che sempre più persone tramassero nei propri confronti. Dopo avere giustiziato il giustiziabile, decise di tagliare la testa al toro e di fare evacuare completamente la città sparando fuori a cannonate gli irriducibili, fino a potere contemplare i tetti della città privi di alcun segno di vita. Considerazioni simili a quelle del Generale Kurtz nel meraviglioso monologo di Marlon Brando alla fine di Apocalypse Now.
Homo homini lupus, sentenziava Hobbes, per il quale l'unico vero deterrente all'autodistruzione sarebbe il contratto sociale che, lungi dal mutare la natura della specie, realizzerebbe una tregua continuativa.
Non tutti la pensano così. L'altro lato della medaglia sostiene che la solidarietà sia alla base dello sviluppo civile che si regge sul reciproco operato, ovvero il lavoro e la creatività inventiva umana. La cultura contro la natura.
Non appartiene certo a questo filone la logica economica che basa tutto sulle leggi giusnaturalistiche del mercato.
È vero che il mercato segue un principio automatico di natura, la legge dell'adattamento meccanico fra domanda ed offerta, ma è anche vero che le leggi di natura sono del tutto sfavorevoli alla civiltà della nostra razza e a tutto ciò che noi riteniamo abbia valore. E i soldi non ne hanno in se stessi, ma caso mai in quello che consentono di fare, ma questo non dipende dalle leggi di mercato. La città costruita in mezzo alla foresta tropicale dopo avere raso al suolo la vegetazione circostante, non appena verrà abbandonata dall'uomo finirà in breve tempo divelta e seppellita dalla vegetazione che si riprenderà il mal tolto.
Per molte popolazioni la caccia non era altro che la vittoria sulla paura che scaturiva dalle mille minacce che la natura serbava per l'uomo. Impauriti, intimoriti nelle loro grotte erano gli scimpanzé di 2001 Odissea nell spazio. La paura è l'emozione archetipica della condizione umana e la civiltà rappresenta l'ultimo vero baluardo nei suoi confronti che le leggi di mercato vorrebbero distruggere a favore di una condizione ecologica di azzeramento e di distruzione della volontà e del libero arbitrio.
Diceva Gargani che il pensiero e quindi il sapere "è una paura che si è data un metodo". Anche l'economia dovrebbe esserlo.
La concentrazione del potere e delle risorse su un numero sempre inferiore di persone, gradualmente porterà a quell'anticamera di morte spaventata descritta da Canetti.
Tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile. Questa legge indiscutibile, che per molti ha un retrogusto pessimista, letta nell'altro senso ha un valore senza pari: non c'è bisogno di essere indispensabili, ma è molto importante rendersi tutti utili per quello che si è in grado di fare. Credere il contrario è pura follia e morte della specie.
Questo è il caso della crisi attuale. Giornali, telegiornali, amici, colleghi… non passa giorno che tutti ci si ricordi reciprocamente che c'è la crisi e che bisogna rassegnarsi. C'è poco da fare!
Gridare alla crisi ha quindi l'indubbia utilità di legittimare quanto di peggio potrà accadere senza trovare resistenza, perché si tratta di un'informazione condivisa nell'Universo Simbolico (come avrebbero detto Berger e Luckman) a cui apparteniamo. Tutti dicono che c'è la crisi e quindi la crisi è vera e non ci si può fare nulla. Durerà per anni e anni e prima o poi colpirà anche me.
Tutto ciò legittima le imprese, che pure contemporaneamente attingono al patrimonio di tutti e soprattutto delle generazioni future, ad adottare ristrutturazioni preventive. Ovvero, i soldi li guadagno e anche tanti, ma se approfitto del fatto che tutti credono nella crisi, potrò licenziare, abbassare gli stipendi, terziarizzare, speculare, chiudere le country e ricattare il consumatore, evadere le tasse e quant'altro, senza che nessuno abbia da eccepire o da chiedermi conto delle mie azioni, perché - si sa - c'è la crisi!!! Così ragiona la maggioranza, da Microsoft a FIAT, passando per banche e manager, come quelli che in USA protestano perché Obama pone la condizione che, se appartengono a quanti ricevono le sovvenzioni statali, non devono percepire stipendi superiori ai 500 mila dollari!!!
Come dar loro torto, c'è la crisi, è vero, ma per i manager USA c'è il libero mercato.
Uno di questi in un qualsiasi paese del libero mercato pose ad un suo collaboratore la domanda se, da pater familias, lui avrebbe pagato per l'operato di uno come lui, specie in un periodo di crisi come questo. L'altro rispose di sì. Avrebbe anche potuto rispondere di no, ma allora prima di licenziare lui, avrebbe dovuto licenziare tutti i suoi capi, la cui attività sta nel coordinare gente che non c'è più, lavoro che non si fa più e che, anche se si facesse ancora, sarebbe più facile ed economico da autogestire. In più, quanto più si sale di gerarchia meno si sa lavorare (essendo l'unico talento quello di fare girare i soldi nel modo stesso che ha provocato la crisi e le perdite dell'azienda a fronte della decadenza del lavoro) e più si costa per fare male.
Allora il capo ribatté che, ragionando così l'azienda sarebbe rimasta senza capi, senza top manager, senza amministratore delegato, senza presidente… L'altro rispose, parafrasando Gaber, "un'azienda senza niente è più leggera!" Non è forse questo quello che contrabbandate? Nessuno è indispensabile".
"Ma in questo modo non esisterebbe più l'azienda, ribatté il manager, e neppure i suoi dipendenti."
"Neppure l'azienda è indispensabile. Ce ne saranno altre pronte a fare il suo lavoro. E, se anche così non fosse, l'uomo potrebbe vivere in qualche modo comunque. E se anche così non fosse, gli uomini potrebbero morire, la specie intera estinguersi. Neppure la specie è indispensabile. Neppure i tuoi figli lo sono."
"Ma dove li metti gli azionisti e la legalità, dove la metti?"
"Pochi secoli fa non esisteva la borsa e, andando un po' più in là, neppure la legge. Per vivere o per uccidere non serve tutto ciò".
"Ma tu ragioni come un nihilista, come un terrorista!"
"Già, è vero, siamo in uno stato in cui in nome del terrorismo si possono intercettare le telefonate e fare ben di peggio, mentre nei confronti di chi truffa, chi evade, chi riduce alla miseria le persone per aumentare la propria già smisurata ricchezza non si può fare nulla. Anche se il terrorismo può avere ucciso qualche centinaio di persone, mentre la disonestà legalizzata ne ha uccise a milioni."
E quindi il collaboratore terminò: "No, guarda, io penso proprio che uno come me o come un altro lo pagherei e pagherei il lavoro fino a che non mi restassero altro che i soldi per campare, perché con l'operosità di tutti, non solo io, ma soprattutto i miei figli vivrebbero meglio, mentre con quattro lire o quattro mila miliardi in un paradiso fiscale avrei merda in cambio di distruzione.
"Forse tu non la pensi così, ma non sarai tu quello che assiste all'esodo dalla città verso la miseria e la morte. Se comunque pure dovessi essere tu quello, da quel momento in poi potresti non avere altro da fare che metterti uno specchio davanti al letto per guardarti ogni giorno diventare sempre più vecchio e infine assistere alla tua morte senza neppure chi ti somministri la morfina per non soffrire. Dopo di te, finalmente un sereno nulla darwiniano"
Nessuno è indispensabile!!!
(oppure tutti possiamo essere utili: non c'è una verità - solo una scelta e una volontà!)
Appunti di uno psicologo delle organizzazioni e psicoterapeuta tra la riconquista della fiducia e la difesa dell'etica.
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09 febbraio 2009
20 settembre 2007
A Cernobbio
Il 27 e il 28 settembre chi scrive e "Aiuti Human Sharing - Innovazione strategica delle risorse umane" saremo presenti al BIP - Borsa Internazionale del Placement che si terrà alla Villa Erba di Cernobbio fino al 29.
La BIP è un'occasione per i manager e i professional delle Risorse Umane per confrontarsi sulle strategie di recruiting, coaching ed employer branding soprattutto in considerazione delle necessità che il mercato sta esprimendo anche in termini di talenti e competenze per il cambiamento.
La nostra presenza è assicurata per i giorni 27 e 28, appunto, presso lo stand di Mercatis, mentre è possibile, ma non ancora sicura (per saperne di più scrivetemi) la partecipazione nel giorno successivo.
Spero di avere l'occasione di incontrarvi per scambiare idee e informazioni direttamente di persona.
La BIP è un'occasione per i manager e i professional delle Risorse Umane per confrontarsi sulle strategie di recruiting, coaching ed employer branding soprattutto in considerazione delle necessità che il mercato sta esprimendo anche in termini di talenti e competenze per il cambiamento.
La nostra presenza è assicurata per i giorni 27 e 28, appunto, presso lo stand di Mercatis, mentre è possibile, ma non ancora sicura (per saperne di più scrivetemi) la partecipazione nel giorno successivo.
Spero di avere l'occasione di incontrarvi per scambiare idee e informazioni direttamente di persona.
20 luglio 2007
Open Sourcing
Partendo dall'informatica…
È degli ultimi giorni la notizia che i nostri rappresentanti politici sono stati invitati ad utilizzare software libero, come una delle tante distribuzioni Linux, nei loro computer per contribuire a notevoli risparmi. Una delle principali attività di Bill Gates & c. consiste nell'arginare questo fenomeno che rappresenta il maggiore rischio di perdite di mercato per Microsoft, come per tutti i principali giganti del software. È curioso notare infatti la differenza di prezzo che esiste fra programmi liberi, di pubblico dominio, commerciali e delle grandi compagnie. Per un programma di grafica si può passare da 0 a 1500 euro. Quello che cambia è soprattutto il confezionamento del prodotto, anni di consolidamento sul mercato e l'espandibilità. In definitiva, ci sono utilizzatori che nello specifico delle loro attività necessitano di funzioni che vengono garantite solo da certi programmi commerciali, mentre per la maggior parte degli altri questa necessità non ci sarebbe affatto.
Se andiamo a ben vedere, la maggior parte dei possessori di un notebook lo usa soprattutto per aprire un browser su Internet, prendere la posta elettronica e scrivere. Tutte funzioni fornite dai programmi inclusi nei principali sistemi operativi. Nessuno di loro ha bisogno di Office per i propri scritti: WordPad o TextEdit per far questo bastano e avanzano; tuttavia senza Word sembra che non possano vivere. In alcuni casi usa fogli di calcolo o si guarda ed elabora minimamente foto e musica delle loro fotocamere digitali o iPod. Anche per fare questo ci sono programmi gratuiti o al prezzo delle patate.
Quello che mi preme sottolineare è che non è solo una questione di soldi. È inutile nascondersi dietro a un dito: per quanto ridimensionato rispetto al passato, il fenomeno dei programmi piratati passati da un amico all'altro è estremamente diffus per l'uso domestico o e contribuisce ad amplificare la necessità di adozione nelle aziende degli stessi pacchetti divenuti una consuetudine d'uso. "Se posso avere il meglio senza pagarlo, perché non farlo?", sostiene la maggior parte di noi.
Io dico che è una questione di igiene lavorativa e mentale. Innanzitutto, ci sono programmi che fanno le stesse cose in molti modi diversi, ognuno dei quali è più adatto ad un tipo particolare di utilizzatore: io, ad esempio ora sto scrivendo con un programma di integrazione di funzioni, dai testi alle ricerche, alle immagini, che mi evita di aprire documenti e programmi inutili e mi rende il lavoro immediato, integrato, semplice ed efficace, ma quanti di voi conoscono l'esistenza di questo genere di applicazioni e quanti ne hanno fatto uso? e secondo voi, perché non vi è stato dato di conoscerli?
L'altra ragione è che i programmi complessi sono architettati in maniera tale che l'utilizzatore non professionale ha maggiori difficoltà a fare quello che gli serve. L'errore sta nel pensare che più cose il mio programma può fare più ne potrò fare io, ma non è così. Photoshop consente ai - tutto sommato pochi - professionisti che hanno necessità delle sue funzioni avanzate e che lo hanno studiato per mesi e ci hanno lavorato per anni di ottenere risultati stupefacenti. Se lo uso io per scaricare le foto e ritoccarle, aggiungendoci due filtri in croce, finirà che sprecherò un'infinità di tempo a fare pasticci e male, disperdendomi in voci e funzioni per me del tutto esoteriche. Con iPhoto contenuto in una suite di altri 5 utili programmi al prezzo di meno di 80 euro, nel mio Mac scarico, archivio, creo album, li pubblico in confezioni raffinate, o sul web, o in presentazioni, dopo aver fatto tutti i ritocchi necessari con pochi passaggi in men che non si dica.
L'igiene nel computer si potrebbe tradurre con una parafrasi: "quello che non nutre strozza"!
… per parlare di azienda …
Bisogna dire che quando parlo di tecnologie tendo a dilungarmi e a perdere di vista l'obiettivo del mio discorso. Ebbene, per farla breve, ci sono dei programmatori che un giorno si sono stufati di non potere modificare il software che hanno comprato. A ragione sostenevano: "Visto che l'ho comprato, ora è mio e devo poterlo modificare come farei con un'auto o un computer", ma i contratti software con condizioni legalmente da capestro non lo consentono. Costoro hanno quindi fondato un movimento per il software aperto, ovvero dove il codice sorgente è accessibile e modificabile a condizione di rispettare lo spirito di chi l'ha concepito aderendo ad un contratto (in sigla GNU) di "ri-diffondibilità" delle proprie modifiche. Questo modo di pensare i programmi è definito Open Source (dall'idea dei codici sorgente aperti) e sono stati in molti ad aderirvi, dando vita alle più interessanti forme di collaborazione intellettuale e professionale della storia. Linux, OpenOffice.org, Gimp e migliaia di altri programmi sono nati all'insegna dell'Open Source e la maggir parte di essi sono gratuiti.
Oltre i programmi, l'idea di apertura è passata ai contenuti, all'Open Content e alle Common Licences: quello che scrivo lo puoi pubblicare anche tu a patto che citi correttamente l'autore e che a tua volta renda aperto il prodotto che generi con i miei contenuti.
In molti si sono domandati perché tanta gente dovrebbe faticare a lungo per regalare agli altri il frutto del proprio lavoro. La risposta sta nel saper guardare alle cose dalla giusta prospettiva. Quello che è importante comprendere è che nell'Open Source sta un'importante rivoluzione copernicana del business foriera di non pochi suggerimenti in questi tempi di crisi dei modelli di mercato. Qui il prodotto è il pre-testo, ovvero la pre-condizione per lavorare e non l'oggetto da vendere. Quello che pagherai sarà la persona che viene da te per insegnarti, per farti crescere, per customizzare lo sviluppo delle tue necessità. Questo vale per il software, come per i contenuti e le conoscenze.
È la de-oggettivizzazione del prodotto e del commercio.
È l'identificazione della relazione come prestazione da retribuire. È la persona per come si pone con te, per il servizio che ti offre per la capacità che dimostra nel comprenderti e nel lavorare al tuo fianco sulle tue esigenze, collaborando insieme a meritare un corrispettivo economico e un riconoscimento professionale.
È giunta l'epoca dell'Open Sourcing anche nella consulenza aziendale e nei servizi a valore aggiunto!
Questo significa che il coach o il formatore che arriva con il suo pacchetto di slides e il copione consolidato e utilizzato quotidianamente con tutti i clienti vale poco più che niente. Possiamo pagare le sue performances istrioniche, ma non i suoi contenuti. Vuol dire che la piattaforma per la gestione aziendale che omologa la tua organizzazione a cento, mille altre, non vale niente, mentre vale il consulente che comprende le tue esigenze e il tuo modello organizzativo e assieme a te o ai tuoi esperti modifica la piattaforma perché si adatti a te e fa crescere i tuoi modelli perché possano prendere in considerazione delle alternative. Vuol dire che il guru che ha creato una propria teoria sulle strategie economiche o di marketing non dovrebbe chiedere una lira per andare in giro a ripetere a tutti la stessa manfrina su quello che ha già scritto nel libro, ma dovrebbe fare pagare - anche a peso d'oro, volendo - la relazione che instaura con il cliente per comprendere i suoi problemi e trovare la risposta più adeguata alla sua situazione.
La questione non riguarda però solo l'offerta, ma prima ancora la domanda.
Non solo bisogna comprendere che la suite d'ufficio non è quello che fa al caso tuo, ma devi anche modificare il tuo modo di lavorare per sfruttare tutte le potenzialità del programma innovativo che hai scelto di adottare.
Traslato in azienda vuol dire che per monti manager è molto più facile pagare il pacchetto finito del gestionale o del consulente che ripete la stessa lezione a tutti uguale, piuttosto che affiancare il consulente e creare un laboratorio di sviluppo personalizzato dedicandoci l'impegno, l'attenzione, l'apprendimento e tutte le risorse che servono per personalizzare quelle competenze nella propria realtà. Non dimentichiamo che una conoscenza o degli strumenti adottati da più concorrenti potranno aiutare a raggiungerli, ma mai a superarli, perché solo le soluzioni originali possono fare sperare in reali profitti e vantaggi competitivi.
Stiamo andando verso un periodo in cui sarà sempre meno l'oggetto a contare, ma neppure il servizio generalizzato, ma la relazione autentica ed empatica che si crea fra persone che si mettono in gioco. Quello che fa la differenza solo le persone e la loro relazione, non le teorie e le tecniche. Non basta usare slogan di successo come gli istrioni del coaching a stelle e strisce. Le promesse di miracoli e la facile sicumera sono in genere indici di prodotti standardizzati che nella migliore delle ipotesi comporteranno un grosso lavoro di adattamento, mentre una certa perplessità, un periodo di studio e ripensamenti, una certa titubanza sono tutti segnali che qualcuno sta cercando di capire proprio te, solo te e sta studiando il modo per darti la soluzione che più fa al caso tuo e solo al tuo, lavorando assieme a te, facendo conto sulle risorse che hai e non su quelle ideali. Questo è il servizio o il prodotto open sourcing a valore aggiunto.
… e finire con i portali.
Per chiudere faccio un esempio concreto. Gran parte delle organizzazioni oggi sembrano avere bisogno di portali per la comunicazione esterna o interna.
Nella comunicazione esterna, ciò che più conta sono i contenuti che si sanno trasferire e i servizi che si riesce a gestire. Pensate a quante società invitano a rivolgersi al sito o a comunicare tramite posta elettronica. Quanti di noi mandano la mail e quanti invece fanno in modo di ottenere il numero di telefono per parlare con un operatore? E questo non certo perché non piaccia la posta elettronica, ma perché per esperienza si sa che se scrivi, se ti va bene otterrai una risposta quando ormai ti sarai anche dimenticato della domanda tanto poco ti serviva più, ma nella maggior parte dei casi non riceverai nulla o peggio ancora una risposta sconclusionata che comporta un tuo ulteriore messaggio che richiederà tempi enormi e poche speranze di soluzione. Colpisce l'investimento che tutte queste società hanno rivolto invece sulle tecnologie, sulla grafica, su costosissimi portali, su funzioni assolutamente vuote e sconosciute persino all'azienda…
Molto meglio avrebbero fatto a servirsi di pagine semplici, senza fare vedere quello che non sono in grado di offrire decentemente e che si possa aprire da tutti i browser.
Ricordiamoci che la fortuna di Yahoo, prima, e di Google poi, dipende soprattutto dalla semplicità, da un lato, e dalla capacità di fare una sola cosa, ma di farla al meglio: altro che portali faraonici ed elefantiaci!
Un argomento a me ancor più caro (vedi Portali e Pathledge) è quello della comunicazione interna (più nota come Intranet). È una vergogna vedere quanti soldi sono stati spesi per comprare portali per favorire l'informazione, la relazione, l'apprendimento, la condivisione delle conoscenze e l'accesso a risorse comuni all'interno della stessa impresa o nelle reti condivise, nel momento in cui non si voleva legittimare le persone a conoscere e a comunicare, né si voleva spendere per favorire la crescita delle risorse. Gran parte delle Intranet che ho conosciuto hanno sortito il solo effetto di rendere ancora più evidente l'omertosità della direzione e la sostanziale indifferenza verso le risorse interne. Infatti, il pensiero diffuso è che i soldi che vengono spesi per il cliente esterno potrebbero ritornare come guadagni, quelli spesi per il dipendente o il collaboratore equivalgono ad un indebito aumento in busta paga: chi lavora perché è costretto può benissimo farlo in condizioni di risparmio e male.
Ciò nonostante il portale costoso viene spesso acquistato, mentre a quello si potrebbe veramente rinunciare, prova ne sia l'esperienza avuta con risorse all'osso nel momento in cui si è lavorato per e con i destinatari. Il segreto della riuscita in quei casi è stato il non fare il passo più lungo della gamba, offendo solo quello che si era in grado di mantenere e aggiungendo, una cosa alla volta, solo quello che veniva richiesto o che l'evoluzione del servizio suggeriva, sempre e solo se si era sicuri di saperlo garantire.
In molte organizzazioni sono stati usati semplici blog o pagine al confine del rudimentale (un fenomeno che sta dilagando su Internet, quello dei siti sobri) e si è riscontrata una soddisfazione dei destinatari superiore a quella ottenuta in tanti lustri portali vagamente clonati e vuoti.
Ma dietro ad ogni successo c'è comunque sempre e solo un segreto: quello che conta non è il pacchetto, ma la relazione che esso consente, la capacità di chi offre e di chi chiede di realizzare un rapporto umano e professionale costruttivo, divertito e felice.
È degli ultimi giorni la notizia che i nostri rappresentanti politici sono stati invitati ad utilizzare software libero, come una delle tante distribuzioni Linux, nei loro computer per contribuire a notevoli risparmi. Una delle principali attività di Bill Gates & c. consiste nell'arginare questo fenomeno che rappresenta il maggiore rischio di perdite di mercato per Microsoft, come per tutti i principali giganti del software. È curioso notare infatti la differenza di prezzo che esiste fra programmi liberi, di pubblico dominio, commerciali e delle grandi compagnie. Per un programma di grafica si può passare da 0 a 1500 euro. Quello che cambia è soprattutto il confezionamento del prodotto, anni di consolidamento sul mercato e l'espandibilità. In definitiva, ci sono utilizzatori che nello specifico delle loro attività necessitano di funzioni che vengono garantite solo da certi programmi commerciali, mentre per la maggior parte degli altri questa necessità non ci sarebbe affatto.
Se andiamo a ben vedere, la maggior parte dei possessori di un notebook lo usa soprattutto per aprire un browser su Internet, prendere la posta elettronica e scrivere. Tutte funzioni fornite dai programmi inclusi nei principali sistemi operativi. Nessuno di loro ha bisogno di Office per i propri scritti: WordPad o TextEdit per far questo bastano e avanzano; tuttavia senza Word sembra che non possano vivere. In alcuni casi usa fogli di calcolo o si guarda ed elabora minimamente foto e musica delle loro fotocamere digitali o iPod. Anche per fare questo ci sono programmi gratuiti o al prezzo delle patate.
Quello che mi preme sottolineare è che non è solo una questione di soldi. È inutile nascondersi dietro a un dito: per quanto ridimensionato rispetto al passato, il fenomeno dei programmi piratati passati da un amico all'altro è estremamente diffus per l'uso domestico o e contribuisce ad amplificare la necessità di adozione nelle aziende degli stessi pacchetti divenuti una consuetudine d'uso. "Se posso avere il meglio senza pagarlo, perché non farlo?", sostiene la maggior parte di noi.
Io dico che è una questione di igiene lavorativa e mentale. Innanzitutto, ci sono programmi che fanno le stesse cose in molti modi diversi, ognuno dei quali è più adatto ad un tipo particolare di utilizzatore: io, ad esempio ora sto scrivendo con un programma di integrazione di funzioni, dai testi alle ricerche, alle immagini, che mi evita di aprire documenti e programmi inutili e mi rende il lavoro immediato, integrato, semplice ed efficace, ma quanti di voi conoscono l'esistenza di questo genere di applicazioni e quanti ne hanno fatto uso? e secondo voi, perché non vi è stato dato di conoscerli?
L'altra ragione è che i programmi complessi sono architettati in maniera tale che l'utilizzatore non professionale ha maggiori difficoltà a fare quello che gli serve. L'errore sta nel pensare che più cose il mio programma può fare più ne potrò fare io, ma non è così. Photoshop consente ai - tutto sommato pochi - professionisti che hanno necessità delle sue funzioni avanzate e che lo hanno studiato per mesi e ci hanno lavorato per anni di ottenere risultati stupefacenti. Se lo uso io per scaricare le foto e ritoccarle, aggiungendoci due filtri in croce, finirà che sprecherò un'infinità di tempo a fare pasticci e male, disperdendomi in voci e funzioni per me del tutto esoteriche. Con iPhoto contenuto in una suite di altri 5 utili programmi al prezzo di meno di 80 euro, nel mio Mac scarico, archivio, creo album, li pubblico in confezioni raffinate, o sul web, o in presentazioni, dopo aver fatto tutti i ritocchi necessari con pochi passaggi in men che non si dica.
L'igiene nel computer si potrebbe tradurre con una parafrasi: "quello che non nutre strozza"!
… per parlare di azienda …
Bisogna dire che quando parlo di tecnologie tendo a dilungarmi e a perdere di vista l'obiettivo del mio discorso. Ebbene, per farla breve, ci sono dei programmatori che un giorno si sono stufati di non potere modificare il software che hanno comprato. A ragione sostenevano: "Visto che l'ho comprato, ora è mio e devo poterlo modificare come farei con un'auto o un computer", ma i contratti software con condizioni legalmente da capestro non lo consentono. Costoro hanno quindi fondato un movimento per il software aperto, ovvero dove il codice sorgente è accessibile e modificabile a condizione di rispettare lo spirito di chi l'ha concepito aderendo ad un contratto (in sigla GNU) di "ri-diffondibilità" delle proprie modifiche. Questo modo di pensare i programmi è definito Open Source (dall'idea dei codici sorgente aperti) e sono stati in molti ad aderirvi, dando vita alle più interessanti forme di collaborazione intellettuale e professionale della storia. Linux, OpenOffice.org, Gimp e migliaia di altri programmi sono nati all'insegna dell'Open Source e la maggir parte di essi sono gratuiti.
Oltre i programmi, l'idea di apertura è passata ai contenuti, all'Open Content e alle Common Licences: quello che scrivo lo puoi pubblicare anche tu a patto che citi correttamente l'autore e che a tua volta renda aperto il prodotto che generi con i miei contenuti.
In molti si sono domandati perché tanta gente dovrebbe faticare a lungo per regalare agli altri il frutto del proprio lavoro. La risposta sta nel saper guardare alle cose dalla giusta prospettiva. Quello che è importante comprendere è che nell'Open Source sta un'importante rivoluzione copernicana del business foriera di non pochi suggerimenti in questi tempi di crisi dei modelli di mercato. Qui il prodotto è il pre-testo, ovvero la pre-condizione per lavorare e non l'oggetto da vendere. Quello che pagherai sarà la persona che viene da te per insegnarti, per farti crescere, per customizzare lo sviluppo delle tue necessità. Questo vale per il software, come per i contenuti e le conoscenze.
È la de-oggettivizzazione del prodotto e del commercio.
È l'identificazione della relazione come prestazione da retribuire. È la persona per come si pone con te, per il servizio che ti offre per la capacità che dimostra nel comprenderti e nel lavorare al tuo fianco sulle tue esigenze, collaborando insieme a meritare un corrispettivo economico e un riconoscimento professionale.
È giunta l'epoca dell'Open Sourcing anche nella consulenza aziendale e nei servizi a valore aggiunto!
Questo significa che il coach o il formatore che arriva con il suo pacchetto di slides e il copione consolidato e utilizzato quotidianamente con tutti i clienti vale poco più che niente. Possiamo pagare le sue performances istrioniche, ma non i suoi contenuti. Vuol dire che la piattaforma per la gestione aziendale che omologa la tua organizzazione a cento, mille altre, non vale niente, mentre vale il consulente che comprende le tue esigenze e il tuo modello organizzativo e assieme a te o ai tuoi esperti modifica la piattaforma perché si adatti a te e fa crescere i tuoi modelli perché possano prendere in considerazione delle alternative. Vuol dire che il guru che ha creato una propria teoria sulle strategie economiche o di marketing non dovrebbe chiedere una lira per andare in giro a ripetere a tutti la stessa manfrina su quello che ha già scritto nel libro, ma dovrebbe fare pagare - anche a peso d'oro, volendo - la relazione che instaura con il cliente per comprendere i suoi problemi e trovare la risposta più adeguata alla sua situazione.
La questione non riguarda però solo l'offerta, ma prima ancora la domanda.
Non solo bisogna comprendere che la suite d'ufficio non è quello che fa al caso tuo, ma devi anche modificare il tuo modo di lavorare per sfruttare tutte le potenzialità del programma innovativo che hai scelto di adottare.
Traslato in azienda vuol dire che per monti manager è molto più facile pagare il pacchetto finito del gestionale o del consulente che ripete la stessa lezione a tutti uguale, piuttosto che affiancare il consulente e creare un laboratorio di sviluppo personalizzato dedicandoci l'impegno, l'attenzione, l'apprendimento e tutte le risorse che servono per personalizzare quelle competenze nella propria realtà. Non dimentichiamo che una conoscenza o degli strumenti adottati da più concorrenti potranno aiutare a raggiungerli, ma mai a superarli, perché solo le soluzioni originali possono fare sperare in reali profitti e vantaggi competitivi.
Stiamo andando verso un periodo in cui sarà sempre meno l'oggetto a contare, ma neppure il servizio generalizzato, ma la relazione autentica ed empatica che si crea fra persone che si mettono in gioco. Quello che fa la differenza solo le persone e la loro relazione, non le teorie e le tecniche. Non basta usare slogan di successo come gli istrioni del coaching a stelle e strisce. Le promesse di miracoli e la facile sicumera sono in genere indici di prodotti standardizzati che nella migliore delle ipotesi comporteranno un grosso lavoro di adattamento, mentre una certa perplessità, un periodo di studio e ripensamenti, una certa titubanza sono tutti segnali che qualcuno sta cercando di capire proprio te, solo te e sta studiando il modo per darti la soluzione che più fa al caso tuo e solo al tuo, lavorando assieme a te, facendo conto sulle risorse che hai e non su quelle ideali. Questo è il servizio o il prodotto open sourcing a valore aggiunto.
… e finire con i portali.
Per chiudere faccio un esempio concreto. Gran parte delle organizzazioni oggi sembrano avere bisogno di portali per la comunicazione esterna o interna.
Nella comunicazione esterna, ciò che più conta sono i contenuti che si sanno trasferire e i servizi che si riesce a gestire. Pensate a quante società invitano a rivolgersi al sito o a comunicare tramite posta elettronica. Quanti di noi mandano la mail e quanti invece fanno in modo di ottenere il numero di telefono per parlare con un operatore? E questo non certo perché non piaccia la posta elettronica, ma perché per esperienza si sa che se scrivi, se ti va bene otterrai una risposta quando ormai ti sarai anche dimenticato della domanda tanto poco ti serviva più, ma nella maggior parte dei casi non riceverai nulla o peggio ancora una risposta sconclusionata che comporta un tuo ulteriore messaggio che richiederà tempi enormi e poche speranze di soluzione. Colpisce l'investimento che tutte queste società hanno rivolto invece sulle tecnologie, sulla grafica, su costosissimi portali, su funzioni assolutamente vuote e sconosciute persino all'azienda…
Molto meglio avrebbero fatto a servirsi di pagine semplici, senza fare vedere quello che non sono in grado di offrire decentemente e che si possa aprire da tutti i browser.
Ricordiamoci che la fortuna di Yahoo, prima, e di Google poi, dipende soprattutto dalla semplicità, da un lato, e dalla capacità di fare una sola cosa, ma di farla al meglio: altro che portali faraonici ed elefantiaci!
Un argomento a me ancor più caro (vedi Portali e Pathledge) è quello della comunicazione interna (più nota come Intranet). È una vergogna vedere quanti soldi sono stati spesi per comprare portali per favorire l'informazione, la relazione, l'apprendimento, la condivisione delle conoscenze e l'accesso a risorse comuni all'interno della stessa impresa o nelle reti condivise, nel momento in cui non si voleva legittimare le persone a conoscere e a comunicare, né si voleva spendere per favorire la crescita delle risorse. Gran parte delle Intranet che ho conosciuto hanno sortito il solo effetto di rendere ancora più evidente l'omertosità della direzione e la sostanziale indifferenza verso le risorse interne. Infatti, il pensiero diffuso è che i soldi che vengono spesi per il cliente esterno potrebbero ritornare come guadagni, quelli spesi per il dipendente o il collaboratore equivalgono ad un indebito aumento in busta paga: chi lavora perché è costretto può benissimo farlo in condizioni di risparmio e male.
Ciò nonostante il portale costoso viene spesso acquistato, mentre a quello si potrebbe veramente rinunciare, prova ne sia l'esperienza avuta con risorse all'osso nel momento in cui si è lavorato per e con i destinatari. Il segreto della riuscita in quei casi è stato il non fare il passo più lungo della gamba, offendo solo quello che si era in grado di mantenere e aggiungendo, una cosa alla volta, solo quello che veniva richiesto o che l'evoluzione del servizio suggeriva, sempre e solo se si era sicuri di saperlo garantire.
In molte organizzazioni sono stati usati semplici blog o pagine al confine del rudimentale (un fenomeno che sta dilagando su Internet, quello dei siti sobri) e si è riscontrata una soddisfazione dei destinatari superiore a quella ottenuta in tanti lustri portali vagamente clonati e vuoti.
Ma dietro ad ogni successo c'è comunque sempre e solo un segreto: quello che conta non è il pacchetto, ma la relazione che esso consente, la capacità di chi offre e di chi chiede di realizzare un rapporto umano e professionale costruttivo, divertito e felice.
10 aprile 2007
Knowledge Workers interni a progetto
All'inizio del 2000 il prematuramente scomparso studioso delle organizzazioni Richard Normann prevedeva la riduzione drastica del personale delle imprese di grandi dimensioni, arrivando a preconizzare che nel giro di qualche anno la grande impresa sarebbe andata a coincidere con il proprio stesso top management. Tutto il resto delle attività, direzioni esecutive comprese, sarebbero state esternalizzate.
Questa previsione si è puntualmente verificata anche se in maniera scomposta.
Così oggi ci ritroviamo con grandi imprese che si servono di contact center condivisi il cui personale nel giro di pochi giorni dovrebbe sapere tutto dell'offerta e dell'assistenza di ogni singolo marchio con conseguenze disastrose soprattutto per i clienti che finiscono per ritirarsi, non solo dalla società, ma spesso dall'intero comparto: il costo di seguire l'offerta della concorrenza o l'innovazione tecnologica è talmente alto in termini di tempo e frustrazione nei rapporti con l'azienda che si preferisce accontentarsi di ciò di cui già si dispone, addirittura regredendo a delle funzioni basilari. Meglio un telefonino fai da te oggi che un videofonino-broadband con call center, incomprensioni, fregature e frustrazioni domani.
I pochi dipendenti con un minimo di anzianità tuttora presenti nelle imprese sono vere miniere per il consumatore, allorquando abbia la fortuna di raggiungerne uno: nonostante siano spesso frustrati e demotivati, riescono in pochi secondi a risolvere problemi che durerebbero giorni e sequele di risposte scorrette seguendo le procedure normali.
L'altra incongruenza di questa situazione e che per arrivare alla grande impresa senza dipendenti si dovrebbero saponificare le risorse tuttora in carico e questo, forse per quelli che qualcuno considera "retaggi ideologici", non è ancora possibile. Tuttavia, mentre il personale generico è più facile da gestire in qualche maniera, almeno pro tempore, e le linee gestionali intermedie sono dislocabili in diversi modi, la fascia che porta con sé le maggiori contraddizioni sono gli esperti, i cosiddetti professional. Quanto più si fanno portatori di conoscenze pregiate tanto più sono scomodi. Hanno dei costi non indifferenti, ma soprattutto portano in luce i panni sporchi del modello. Si preferisce piuttosto pagare a volte a caro prezzo competenze esterne che sono a loro volta sotto-pagate con personale precario, spesso alle prime armi, grazie alle pratiche d'uso delle leggi sul lavoro da Treu in poi. Nel contempo si fanno "andare a male" portatori di esperienze utili e a volte uniche. Certo, l'ideale sarebbe fare confluire questi professional in società di consulenza come quelle auspicate da Normann, ma le cose - almeno in Italia - non stanno così: le imprese del nostro paese non hanno sensibilità per gli investimenti in intelligenza o servizi e fra burro, cannoni e conoscenza, all'ultima sono pronti a rinunciare immediatamente a dispetto delle dichiarazioni rilasciate al solo scopo di non incorrere in penalizzazioni dovute al bilancio di sostenibilità, ultimo segreto di Pulcinella societario. Nessuna società di consulenza assumerebbe esperti senior di appartenenza aziendale a tempo indeterminato, quando può vendere giovani su cui speculare per due soldi.
Questo vuol dire che queste grandi imprese dovrebbero mettere a fattor comune i propri professional che nessun distretto vuole avere nel proprio budget. Invece di rimpallarseli reciprocamente o di creare delle società specializzate ad hoc per competere contro i grandi speculatori del settore, dovrebbero creare dei grandi repositori corporate, un recettacolo indifferenziato di tutto il patrimonio di professionisti aziendali.
Oggi i knowledge workers sono sempre meno specializzati e fanno riferimento a sempre nuove interdisciplinarietà. Inoltre la qualità peculiare del lavoratore della conoscenza è quella di unire alle competenze disciplinari la conoscenza connessa all'esperienza e all'appartenenza aziendale.
Per questa ragione le imprese, marcatamente quelle di grandi dimensioni che stanno snellendo le proprie strutture quando non stanno addirittura destrutturando completamente grandi aree farebbero bene a pensare a una nuova figura, quella del lavoratore a progetto interno (un "Insider CoCoCo") da destinare di volta in volta all'area, alle divisioni, alle società controllate, collegate e così via al momento del bisogno.
Un bacino di competenze generale con un ampio spettro di utilizzo da sostituire o anche solo da affiancare ai gruppi in outsourcing. In questo modo si conserverebbe una preziosa competenza interna, ottimizzando i costi e riducendo gli sprechi.
Chissà mai però se imprese divenute oramai sempre più ostaggi delle multinazionali della consulenza e dei programmi gestionali si interesseranno mai di determinare qualcosa di sempre meno speculativo come la propria organizzazione interna?
Questa previsione si è puntualmente verificata anche se in maniera scomposta.
Così oggi ci ritroviamo con grandi imprese che si servono di contact center condivisi il cui personale nel giro di pochi giorni dovrebbe sapere tutto dell'offerta e dell'assistenza di ogni singolo marchio con conseguenze disastrose soprattutto per i clienti che finiscono per ritirarsi, non solo dalla società, ma spesso dall'intero comparto: il costo di seguire l'offerta della concorrenza o l'innovazione tecnologica è talmente alto in termini di tempo e frustrazione nei rapporti con l'azienda che si preferisce accontentarsi di ciò di cui già si dispone, addirittura regredendo a delle funzioni basilari. Meglio un telefonino fai da te oggi che un videofonino-broadband con call center, incomprensioni, fregature e frustrazioni domani.
I pochi dipendenti con un minimo di anzianità tuttora presenti nelle imprese sono vere miniere per il consumatore, allorquando abbia la fortuna di raggiungerne uno: nonostante siano spesso frustrati e demotivati, riescono in pochi secondi a risolvere problemi che durerebbero giorni e sequele di risposte scorrette seguendo le procedure normali.
L'altra incongruenza di questa situazione e che per arrivare alla grande impresa senza dipendenti si dovrebbero saponificare le risorse tuttora in carico e questo, forse per quelli che qualcuno considera "retaggi ideologici", non è ancora possibile. Tuttavia, mentre il personale generico è più facile da gestire in qualche maniera, almeno pro tempore, e le linee gestionali intermedie sono dislocabili in diversi modi, la fascia che porta con sé le maggiori contraddizioni sono gli esperti, i cosiddetti professional. Quanto più si fanno portatori di conoscenze pregiate tanto più sono scomodi. Hanno dei costi non indifferenti, ma soprattutto portano in luce i panni sporchi del modello. Si preferisce piuttosto pagare a volte a caro prezzo competenze esterne che sono a loro volta sotto-pagate con personale precario, spesso alle prime armi, grazie alle pratiche d'uso delle leggi sul lavoro da Treu in poi. Nel contempo si fanno "andare a male" portatori di esperienze utili e a volte uniche. Certo, l'ideale sarebbe fare confluire questi professional in società di consulenza come quelle auspicate da Normann, ma le cose - almeno in Italia - non stanno così: le imprese del nostro paese non hanno sensibilità per gli investimenti in intelligenza o servizi e fra burro, cannoni e conoscenza, all'ultima sono pronti a rinunciare immediatamente a dispetto delle dichiarazioni rilasciate al solo scopo di non incorrere in penalizzazioni dovute al bilancio di sostenibilità, ultimo segreto di Pulcinella societario. Nessuna società di consulenza assumerebbe esperti senior di appartenenza aziendale a tempo indeterminato, quando può vendere giovani su cui speculare per due soldi.
Questo vuol dire che queste grandi imprese dovrebbero mettere a fattor comune i propri professional che nessun distretto vuole avere nel proprio budget. Invece di rimpallarseli reciprocamente o di creare delle società specializzate ad hoc per competere contro i grandi speculatori del settore, dovrebbero creare dei grandi repositori corporate, un recettacolo indifferenziato di tutto il patrimonio di professionisti aziendali.
Oggi i knowledge workers sono sempre meno specializzati e fanno riferimento a sempre nuove interdisciplinarietà. Inoltre la qualità peculiare del lavoratore della conoscenza è quella di unire alle competenze disciplinari la conoscenza connessa all'esperienza e all'appartenenza aziendale.
Per questa ragione le imprese, marcatamente quelle di grandi dimensioni che stanno snellendo le proprie strutture quando non stanno addirittura destrutturando completamente grandi aree farebbero bene a pensare a una nuova figura, quella del lavoratore a progetto interno (un "Insider CoCoCo") da destinare di volta in volta all'area, alle divisioni, alle società controllate, collegate e così via al momento del bisogno.
Un bacino di competenze generale con un ampio spettro di utilizzo da sostituire o anche solo da affiancare ai gruppi in outsourcing. In questo modo si conserverebbe una preziosa competenza interna, ottimizzando i costi e riducendo gli sprechi.
Chissà mai però se imprese divenute oramai sempre più ostaggi delle multinazionali della consulenza e dei programmi gestionali si interesseranno mai di determinare qualcosa di sempre meno speculativo come la propria organizzazione interna?
25 ottobre 2006
Psicosi d'azienda
Non solo le persone, ma anche i gruppi, le organizzazioni e le istituzioni sono diagnosticabili con le categorie della psicopatologia. Come diceva Bateson, ovunque vi sia una differenza di informazioni esiste una mente e d'altronde ogni organismo individuale può essere visto come un sistema inserito a sua volta come parte di in un altro sistema. Non è quindi inappropriato parlare di mente di sistema. Questi strumenti, se in passato sono stati oggetti di abuso, possono risultare ancora utili quantomeno come metafore, nonostante sia fuori moda nell'attuale intelligenza gestionale a una dimensione.
Tuttavia, se anche l'azienda non guarda a sé stessa e valuta lo stato della propria salute basandosi escusivamente sul proprio flusso di cassa, comprendere può diventare vitale per chi deve entrarci, deve valutare la propria continuità o è costretto a sopravviverci.
Nevrosi e dissociazione
La salute, si sa, è un concetto molto relativo e quella mentale è ancor più discutibile.
Tuttavia una distizione fondamentale nella diagnostica psicopatologica è data dalla percezione della realtà. Che taluni comportamenti o stati d'animo possano essere considerati indesiderati da chi li vive o da chi ci convive può essere messo in discussione e anche trascurato. Quando si ha a che fare con la realtà condivisa, la cosa cambia.
La cosiddetta realtà non può essere cosiderata un dato di verità incontrovertibile, ma piuttosto una convenzione condivisa e assunta come implicito transgenerazionale del significato delle distinzioni operate da quanto viene percepito attraverso gli organi di senso. Questa convenzione è indispensabile perché sia possibile una convivenza sociale e, dove questa venga meno, la qualità della vita decade e assume le forme note con termini quali alienazione, dissociazione, follia, pazzia.
Una premessa lunga e comprensibilmente indigesta ai più per descrivere qualcosa che ci pare di riscontrare sempre più di frequente nelle nostre aziende.
Che un'impresa, i gruppi al suo interno, la sua cultura e le sue comunicazioni - in una parola la sua mente - possa essere afflitta da relazioni stressanti o di tipo vagamente nevrotico è tutt'altro che infrequente. Non solo è "normale", ma addirittura può essere una condizione di originalità e di competitività. Questo è vero in particolare quando i conflitti che si agitano al suo interno sono gestiti, mediati, ricomposti in relazioni dinamiche di cambiamento adattivo.
Diverso è il caso in cui questi conflitti si irrigidiscono e, non potendo tradursi in dinamismo, si fissano in blocchi distruttivi o condizioni di stallo.
In questi casi è l'interpretazione della realtà a trovarsi messa in discussione. Che una data situazione venga intesa in modo diverso dalle parti dell'impresa non è strano e che questo generi comportamenti al limite dell'assurdo può essere inauspicabile, ma è comunque trattabile. Proprio come la persona che attribuisca ad un fatto o a un comportamento di chi gli sta accanto un significato non condiviso o di colui che, temendo che certe circostanze ingenerino situazioni temute, metta in atto rituali o azioni irragionevoli e penalizzanti, anche nelle aziende si verificano distorsioni del comportamento o degli schemi cognitivi.
Aziende dissociate
Quello che un tempo avveniva di rado e che invece oggi ci troviamo a riscontrare sempre più spesso, soprattutto nelle grandi imprese, sono delle configurazioni schiettamente psicotiche.
Chi vive all'interno di queste aziende perde completamente l'orientamento, e la vita relazionale è improntata da uno stato di profonda confusione.
Quello che si osserva è un distacco dalla realtà condivisa.
Prendete alcune persone che normalmente e per ruolo siano informate sulla vita aziendale. Parlando con loro di alcune realtà, eventi, aree, finalità oppure obiettivi scoprite che ognuno vi descrive un "film" differente, come se parlassero di due mondi che non si conoscono e non hanno - quasi - niente in comune.
In queste organizzazioni non esiste consapevolezza dell'identità (parafrasando Laing, si potrebbe parlare di un "Io frantumato" più che "diviso") né conoscenza univoca delle sue parti. Si comincia ad assistere a discussioni dove uno dice all'altro: "No, le cose non stanno affatto così e io lo so perché ne faccio parte" e l'altro risponde: "Guarda che ne faccio parte anch'io e lo so bene. Mi domando piuttosto dov'eri tu mentre avveniva tutto questo o si dicevano queste cose".
La situazione peggiora quando la discussione è fra sordi che sembrano intendersi alla perfezione: "Eh, sì. Il dipartimento non è più lo stesso da quando Rossi è stato fatto fuori perché aveva detto male di Bianchi".
"Già, certo, Rossi se n'è andato perché voleva andare in un posto che funzionava e non com'era lì con Bianchi".
Oppure: "Questo team è l'unica realtà vivace dove si può fare di tutto e le attività sono così tante che non sai da dove cominciare".
"D'altro canto finire in quel team è come andare su un binario morto senza argomenti, inventato solo per far fare carriera a Rossi che una volta ottenuta la posizione ha mollato tutti al loro destino".
"E sì, ma purtroppo io ormai devo restare dove sono se no ci andrei molto volentieri".
"Anch'io penso che è meglio un uovo oggi che una gallina domani".
Discorsi apparentemente vuoti, appartenenti al normale assurdo Ioneschiano non fosse che la salute delle persone decade, i dipendenti si schermano, i manager diventano esecutori di compiti circoscritti, tutti incominciano a vivere con il paraocchi per non farsi contaminare dalla dissociazione generale. Qualcuno si appella ad un fantomatico Grande Vecchio, altri sostengono che dietro c'è un disegno ben preciso e che il Consiglio d'Amministrazione sa perfettamente dove si sta andando e conosce il perché di ogni singola realtà. Il più delle volte anche l'Amministratore Delegato rifiuta di far parte di questa realtà, si difende dietro al ruolo di tagliatore di spese / risorse che avrebbe ricevuto dall'azionista di maggioranza, partecipa tangenzialmente all'azienda preferendo vivere nei palazzi altrove.
Management della sopravvivenza
Questi dipendenti allienati si ritirano in realtà impoverite da un quotidiano dissociato, abbarbicati ai rituali operativi che assicurano una qualche sicurezza. In altri casi sostengono di essere - loro - depressi o fobici perché non ce la fanno più a tornare in ufficio. Quello che è paradossale è che queste forme di reazione sono invece veri e propri sintomi di salute e di igiene mentale perché, in ogni caso, difendersi da ambienti e condizioni patogene è intelligente, sano e sacrosanto.
Ci sarebbe infine da domandarsi se in tali aziende ci siano gli estremi per sollevare accuse di mobbing: se l'azienda non è in grado di intendere e di volere non può rispondere delle proprie azioni.
La volontà e le intenzioni ci sono, stiamone sicuri. Solo forse sono spostate talmente in alto, in moventi che nulla hanno più a che fare con le aziende e meno che mai con le politiche industriali. Curare le aziende vuol dire disvelare le trame relazionali del sistema. E, se neppure a quel punto si decide di porre riparo a questa psicosi, non rimane che il Trattamento Sanitario Obbligatorio, la contenzione obbligata, l'elettrochoc, una drammatica quanto esiziale crisi.
Tuttavia, se anche l'azienda non guarda a sé stessa e valuta lo stato della propria salute basandosi escusivamente sul proprio flusso di cassa, comprendere può diventare vitale per chi deve entrarci, deve valutare la propria continuità o è costretto a sopravviverci.
Nevrosi e dissociazione
La salute, si sa, è un concetto molto relativo e quella mentale è ancor più discutibile.
Tuttavia una distizione fondamentale nella diagnostica psicopatologica è data dalla percezione della realtà. Che taluni comportamenti o stati d'animo possano essere considerati indesiderati da chi li vive o da chi ci convive può essere messo in discussione e anche trascurato. Quando si ha a che fare con la realtà condivisa, la cosa cambia.
La cosiddetta realtà non può essere cosiderata un dato di verità incontrovertibile, ma piuttosto una convenzione condivisa e assunta come implicito transgenerazionale del significato delle distinzioni operate da quanto viene percepito attraverso gli organi di senso. Questa convenzione è indispensabile perché sia possibile una convivenza sociale e, dove questa venga meno, la qualità della vita decade e assume le forme note con termini quali alienazione, dissociazione, follia, pazzia.
Una premessa lunga e comprensibilmente indigesta ai più per descrivere qualcosa che ci pare di riscontrare sempre più di frequente nelle nostre aziende.
Che un'impresa, i gruppi al suo interno, la sua cultura e le sue comunicazioni - in una parola la sua mente - possa essere afflitta da relazioni stressanti o di tipo vagamente nevrotico è tutt'altro che infrequente. Non solo è "normale", ma addirittura può essere una condizione di originalità e di competitività. Questo è vero in particolare quando i conflitti che si agitano al suo interno sono gestiti, mediati, ricomposti in relazioni dinamiche di cambiamento adattivo.
Diverso è il caso in cui questi conflitti si irrigidiscono e, non potendo tradursi in dinamismo, si fissano in blocchi distruttivi o condizioni di stallo.
In questi casi è l'interpretazione della realtà a trovarsi messa in discussione. Che una data situazione venga intesa in modo diverso dalle parti dell'impresa non è strano e che questo generi comportamenti al limite dell'assurdo può essere inauspicabile, ma è comunque trattabile. Proprio come la persona che attribuisca ad un fatto o a un comportamento di chi gli sta accanto un significato non condiviso o di colui che, temendo che certe circostanze ingenerino situazioni temute, metta in atto rituali o azioni irragionevoli e penalizzanti, anche nelle aziende si verificano distorsioni del comportamento o degli schemi cognitivi.
Aziende dissociate
Quello che un tempo avveniva di rado e che invece oggi ci troviamo a riscontrare sempre più spesso, soprattutto nelle grandi imprese, sono delle configurazioni schiettamente psicotiche.
Chi vive all'interno di queste aziende perde completamente l'orientamento, e la vita relazionale è improntata da uno stato di profonda confusione.
Quello che si osserva è un distacco dalla realtà condivisa.
Prendete alcune persone che normalmente e per ruolo siano informate sulla vita aziendale. Parlando con loro di alcune realtà, eventi, aree, finalità oppure obiettivi scoprite che ognuno vi descrive un "film" differente, come se parlassero di due mondi che non si conoscono e non hanno - quasi - niente in comune.
In queste organizzazioni non esiste consapevolezza dell'identità (parafrasando Laing, si potrebbe parlare di un "Io frantumato" più che "diviso") né conoscenza univoca delle sue parti. Si comincia ad assistere a discussioni dove uno dice all'altro: "No, le cose non stanno affatto così e io lo so perché ne faccio parte" e l'altro risponde: "Guarda che ne faccio parte anch'io e lo so bene. Mi domando piuttosto dov'eri tu mentre avveniva tutto questo o si dicevano queste cose".
La situazione peggiora quando la discussione è fra sordi che sembrano intendersi alla perfezione: "Eh, sì. Il dipartimento non è più lo stesso da quando Rossi è stato fatto fuori perché aveva detto male di Bianchi".
"Già, certo, Rossi se n'è andato perché voleva andare in un posto che funzionava e non com'era lì con Bianchi".
Oppure: "Questo team è l'unica realtà vivace dove si può fare di tutto e le attività sono così tante che non sai da dove cominciare".
"D'altro canto finire in quel team è come andare su un binario morto senza argomenti, inventato solo per far fare carriera a Rossi che una volta ottenuta la posizione ha mollato tutti al loro destino".
"E sì, ma purtroppo io ormai devo restare dove sono se no ci andrei molto volentieri".
"Anch'io penso che è meglio un uovo oggi che una gallina domani".
Discorsi apparentemente vuoti, appartenenti al normale assurdo Ioneschiano non fosse che la salute delle persone decade, i dipendenti si schermano, i manager diventano esecutori di compiti circoscritti, tutti incominciano a vivere con il paraocchi per non farsi contaminare dalla dissociazione generale. Qualcuno si appella ad un fantomatico Grande Vecchio, altri sostengono che dietro c'è un disegno ben preciso e che il Consiglio d'Amministrazione sa perfettamente dove si sta andando e conosce il perché di ogni singola realtà. Il più delle volte anche l'Amministratore Delegato rifiuta di far parte di questa realtà, si difende dietro al ruolo di tagliatore di spese / risorse che avrebbe ricevuto dall'azionista di maggioranza, partecipa tangenzialmente all'azienda preferendo vivere nei palazzi altrove.
Management della sopravvivenza
Questi dipendenti allienati si ritirano in realtà impoverite da un quotidiano dissociato, abbarbicati ai rituali operativi che assicurano una qualche sicurezza. In altri casi sostengono di essere - loro - depressi o fobici perché non ce la fanno più a tornare in ufficio. Quello che è paradossale è che queste forme di reazione sono invece veri e propri sintomi di salute e di igiene mentale perché, in ogni caso, difendersi da ambienti e condizioni patogene è intelligente, sano e sacrosanto.
Ci sarebbe infine da domandarsi se in tali aziende ci siano gli estremi per sollevare accuse di mobbing: se l'azienda non è in grado di intendere e di volere non può rispondere delle proprie azioni.
La volontà e le intenzioni ci sono, stiamone sicuri. Solo forse sono spostate talmente in alto, in moventi che nulla hanno più a che fare con le aziende e meno che mai con le politiche industriali. Curare le aziende vuol dire disvelare le trame relazionali del sistema. E, se neppure a quel punto si decide di porre riparo a questa psicosi, non rimane che il Trattamento Sanitario Obbligatorio, la contenzione obbligata, l'elettrochoc, una drammatica quanto esiziale crisi.
23 ottobre 2006
La fine dei sistemi socio-tecnici
La Costituzione
Che il nostro paese sia "una Repubblica democratica fondata sul lavoro" è qualcosa che può essere seriamente messo in discussione. Non sarebbero pochi oggi a correggere l'articolo con un "fondata sugli interessi". Il lavoro è infatti una categoria in via d'estinzione. Un po' perché lo fanno sempre meno gli italiani, ma soprattutto perché, quando fu espressa questa curiosa, ma fondamentale formula, per "lavoro" si intendeva qualcosa di eticamente, moralmente, politicamente e umanamente diverso dal significato attribuitogli oggi.
Il lavoro è innanzitutto un'attività che catalizza le relazioni interpersonali attorno alla realizzazione di un obiettivo che coincide spesso con un piccolo o grande contributo alla civiltà del paese.
Un glossario
Questo vuol dire che il lavoro è prima di tutto espressione della creatività e dell'attività umana, e contributo all'evoluzione della propria cultura.
Il profitto è un prodotto delle realizzazioni umane (sempre meno quelle strutturali e sempre più quelle sovrastrutturali ovvero parassitarie) da un punto di vista dell'arricchimento sociale e della cultura di appartenenza.
L'impresa è la coniugazione della una creazione di ricchezza socio-culturale con la realizzazione di ricchezza economica, tanto per l'impresa stessa e i suoi membri (e quindi l'imprenditore stesso e chi ne condivide gli investimenti) che per il Dipartimento geografico e il Paese intero.
La speculazione è la realizzazione di profitto senza il ricorso ad imprese aventi le caratteristiche suddette (il termine "impresa" oggi è sempre più abusivo, abusato com'è da società fantasma che non generano prodotto, servizio o ricchezza, ma al massimo la stornano arricchendo così la proprietà e i suoi stakeholder). (Osservazioni analoghe vennero espresse fin dagli anni '80 da Alain Touraine e conseguentemente da Luciano Gallino).
Dalle Human Relations…
Corsi e ricorsi storici! Fu Keynes a sottolineare come la ricchezza fosse il frutto di un'economia generale della Nazione, invece dei risultati del singolo bilancio. Negli anni a cavallo fra le due guerre mondiali (fra la fine dei '20 e l'inizio dei '30) alla Western Electric di Hawthorne i ricercatori attorno a Elton Mayo misero per la prima volta l'accento sui contributi alla produttività forniti dal clima e dal comportamento dei dipendenti da questo condizionati. Da questi lavori nacque la scuola delle "Relazioni Umane" che evidenziava come nel lavoro fosse centrale il bisogno di appartenenza al gruppo, la qualità dei rapporti interpersonali fra dipendenti e la presenza di un significato a cui fornire un contributo riconosciuto per una "causa" comune.
Nel secondo dopo-guerra la teoria sistemica influenzò la trasformazione di queste ispirazioni originarie in un modello definito socio-tecnico (Emery, Trist) che illustrava come la salute dell'impresa dipendesse dall'efficacia del continuo scambio retroattivo (feedback) fra la componente strutturale (tecnica) e quella interattiva (sociale). La visione sistemica accentuava l'idea che l'impresa fosse soprattutto un ambiente a sua volta inserito in uno più grande e contente dei sotto-ambienti che scambiavano processi e transazioni tramite i quali si realizza una cultura specifica. La fortuna di queste idee ha superato il modello stesso, incarnandosi alla fine nelle evoluzioni degli anni '80, primo fra tutti il "Total Quality Management".
…alla globalizzazione
Perché di sistemi socio-tecnici non si sente più parlare? Perché il lavoro è stato parcellizzato e disperso e le imprese sono state portate altrove. Ci stanno insegnando che dobbiamo ragionare in termini di mercato e in termini di geografie allargate, mentre la geografia della speculazione funziona per concentrazioni e non certo per distribuzioni. Fuori dell'impresa la morte della politica industriale è dettata dalle manipolazioni dei mercati borsistici. Dentro le imprese il loro sfacelo è causato dall'esternalizzazione selvaggia prima dell'operatività e ultimamente del pensiero e dalla sostituzione dei criteri euristici (innovativi) di organizzazione e gestione con strumenti di standardizzazione e automazione uniformanti (a causa dell'omologazione in basso le imprese hanno sempre meno quel contributo all'innovazione che - unico - ne garantirebbe la competitività) e costosissimi proprio in termini industriali e organizzativi.
La fine dei sistemi socio-tecnici
La morte del sistema socio-tecnico comporta una scomparsa del lavoro come relazione e condizione di crescita culturale. Questa non può essere sostituita né con il profitto, né con la sua diretta emanazione che non è più il capitale, ma piuttosto il consumo delle eccedenze sempre maggiori e l'acquisizione di poteri sempre meno collegati con i loro effetti. A che serve essere "potenti" in un luogo privo di cultura relazionale, in un paese in cui l'arricchimento civile si è fermato o è regredito?
Se infine un luogo di crescita socio-tecnica ci fosse nel nostro paese, questo non è dato né dalle piccole imprese, troppo spesso realtà "mordi e fuggi" improntate sulla speculazione del quotidiano, né dalle grandi imprese, vuoti gangli della movimentazione borsistica di denaro soprattutto fra clan di capitale praticamente protetti dall'anonimato internazionale. Una possibilità viene data proprio dalle risorse della media impresa, dove sopravvive ancora una residua cultura imprenditoriale.
C'è un limite di applicazione alle sociologie, psicologie e metodi gestionali e questo è la volontà e l'etica delle persone e dei paesi.
Vedi anche:
Dal baratto alla post-economia
Missing Culture
Che il nostro paese sia "una Repubblica democratica fondata sul lavoro" è qualcosa che può essere seriamente messo in discussione. Non sarebbero pochi oggi a correggere l'articolo con un "fondata sugli interessi". Il lavoro è infatti una categoria in via d'estinzione. Un po' perché lo fanno sempre meno gli italiani, ma soprattutto perché, quando fu espressa questa curiosa, ma fondamentale formula, per "lavoro" si intendeva qualcosa di eticamente, moralmente, politicamente e umanamente diverso dal significato attribuitogli oggi.
Il lavoro è innanzitutto un'attività che catalizza le relazioni interpersonali attorno alla realizzazione di un obiettivo che coincide spesso con un piccolo o grande contributo alla civiltà del paese.
Un glossario
Questo vuol dire che il lavoro è prima di tutto espressione della creatività e dell'attività umana, e contributo all'evoluzione della propria cultura.
Il profitto è un prodotto delle realizzazioni umane (sempre meno quelle strutturali e sempre più quelle sovrastrutturali ovvero parassitarie) da un punto di vista dell'arricchimento sociale e della cultura di appartenenza.
L'impresa è la coniugazione della una creazione di ricchezza socio-culturale con la realizzazione di ricchezza economica, tanto per l'impresa stessa e i suoi membri (e quindi l'imprenditore stesso e chi ne condivide gli investimenti) che per il Dipartimento geografico e il Paese intero.
La speculazione è la realizzazione di profitto senza il ricorso ad imprese aventi le caratteristiche suddette (il termine "impresa" oggi è sempre più abusivo, abusato com'è da società fantasma che non generano prodotto, servizio o ricchezza, ma al massimo la stornano arricchendo così la proprietà e i suoi stakeholder). (Osservazioni analoghe vennero espresse fin dagli anni '80 da Alain Touraine e conseguentemente da Luciano Gallino).
Dalle Human Relations…
Corsi e ricorsi storici! Fu Keynes a sottolineare come la ricchezza fosse il frutto di un'economia generale della Nazione, invece dei risultati del singolo bilancio. Negli anni a cavallo fra le due guerre mondiali (fra la fine dei '20 e l'inizio dei '30) alla Western Electric di Hawthorne i ricercatori attorno a Elton Mayo misero per la prima volta l'accento sui contributi alla produttività forniti dal clima e dal comportamento dei dipendenti da questo condizionati. Da questi lavori nacque la scuola delle "Relazioni Umane" che evidenziava come nel lavoro fosse centrale il bisogno di appartenenza al gruppo, la qualità dei rapporti interpersonali fra dipendenti e la presenza di un significato a cui fornire un contributo riconosciuto per una "causa" comune.
Nel secondo dopo-guerra la teoria sistemica influenzò la trasformazione di queste ispirazioni originarie in un modello definito socio-tecnico (Emery, Trist) che illustrava come la salute dell'impresa dipendesse dall'efficacia del continuo scambio retroattivo (feedback) fra la componente strutturale (tecnica) e quella interattiva (sociale). La visione sistemica accentuava l'idea che l'impresa fosse soprattutto un ambiente a sua volta inserito in uno più grande e contente dei sotto-ambienti che scambiavano processi e transazioni tramite i quali si realizza una cultura specifica. La fortuna di queste idee ha superato il modello stesso, incarnandosi alla fine nelle evoluzioni degli anni '80, primo fra tutti il "Total Quality Management".
…alla globalizzazione
Perché di sistemi socio-tecnici non si sente più parlare? Perché il lavoro è stato parcellizzato e disperso e le imprese sono state portate altrove. Ci stanno insegnando che dobbiamo ragionare in termini di mercato e in termini di geografie allargate, mentre la geografia della speculazione funziona per concentrazioni e non certo per distribuzioni. Fuori dell'impresa la morte della politica industriale è dettata dalle manipolazioni dei mercati borsistici. Dentro le imprese il loro sfacelo è causato dall'esternalizzazione selvaggia prima dell'operatività e ultimamente del pensiero e dalla sostituzione dei criteri euristici (innovativi) di organizzazione e gestione con strumenti di standardizzazione e automazione uniformanti (a causa dell'omologazione in basso le imprese hanno sempre meno quel contributo all'innovazione che - unico - ne garantirebbe la competitività) e costosissimi proprio in termini industriali e organizzativi.
La fine dei sistemi socio-tecnici
La morte del sistema socio-tecnico comporta una scomparsa del lavoro come relazione e condizione di crescita culturale. Questa non può essere sostituita né con il profitto, né con la sua diretta emanazione che non è più il capitale, ma piuttosto il consumo delle eccedenze sempre maggiori e l'acquisizione di poteri sempre meno collegati con i loro effetti. A che serve essere "potenti" in un luogo privo di cultura relazionale, in un paese in cui l'arricchimento civile si è fermato o è regredito?
Se infine un luogo di crescita socio-tecnica ci fosse nel nostro paese, questo non è dato né dalle piccole imprese, troppo spesso realtà "mordi e fuggi" improntate sulla speculazione del quotidiano, né dalle grandi imprese, vuoti gangli della movimentazione borsistica di denaro soprattutto fra clan di capitale praticamente protetti dall'anonimato internazionale. Una possibilità viene data proprio dalle risorse della media impresa, dove sopravvive ancora una residua cultura imprenditoriale.
C'è un limite di applicazione alle sociologie, psicologie e metodi gestionali e questo è la volontà e l'etica delle persone e dei paesi.
Vedi anche:
Dal baratto alla post-economia
Missing Culture
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